Mai come quest’anno siamo felici che i pronostici ufficiali sugli Oscar siano stati smentiti perché Parasite di Bong Joon Ho – che ha vinto quattro statuette (miglior film, regia, sceneggiatura e film internazionale) – merita tutto il successo che ha avuto.
È la prima volta nella storia della Academy che, nella categoria miglior film, viene premiata un’opera non in lingua inglese ed era sempre la prima volta che una pellicola sudcoreana veniva candidata come miglior film internazionale – oggi la dicitura è cambiata, non più film in lingua straniera per poter includere le opere anglofone girate nelle ex colonie dell’Impero britannico. Inoltre, era da diciannove anni, ovvero dal 2001 de La tigre e il dragone, che un film asiatico non veniva nominato nelle categorie più importanti.
L’Academy ha abbandonato dunque il suo tradizionale e consolidato conservatorismo – forse aiutata dal ricambio generazionale tra le file dei giurati – e ha premiato quello che veniva considerato soltanto come un outsider. Va detto però che, dopo la Palma d’Oro a Cannes nel 2019, negli ultimi mesi il consenso attorno a Parasite è cresciuto in maniera esponenziale, soprattutto dopo il premio al miglior cast cinematografico agli Screen Actors Guild Awards e quello per miglior film e regia ai Critics Choice Award, nonché numerosi altri riconoscimenti ricevuti nell’infinita congerie di premiazioni susseguitesi nel mese di gennaio. È come se Hollywood avesse letteralmente adottato questo piccolo – per produzione si intende – sorprendente film che ha saputo guadagnarsi un consenso crescente e trasversale e ha sbaragliato avversari di taratura produttiva ben più voluminosa.
Come dicevamo, siamo felici per Bong Joon Ho perché il suo Parasite, commedia nera che è anche un’amara riflessione sulla nostra società e sulle differenze di classe, è un film complesso e stratificato – anche dal punto di vista scenografico – che dice cose scomode, che non piacciono e mettono in crisi le coscienze di tutti, scardinando gli stereotipi sui poveri e sulle classi agiate. Lo fa con le armi del registro grottesco, satirico, surreale, comico e drammatico, sapientemente fusi in un’alchimia che fa scintille e che mantiene un ritmo indiavolato per tutta la durata del film, fino al finale sorprendente e impietoso. Sebbene ambientato nella Corea del Sud, Parasite abbraccia temi universali e diventa specchio impietoso dei tempi che stiamo vivendo.
Il grande favorito 1917 – che nelle ultime settimane aveva fatto incetta di premi tra cui Golden Globe come miglior film drammatico e miglior regia e sette premi BAFTA – nonostante le dieci candidature, si è accontentato dei due Oscar per i migliori effetti speciali e per la miglior fotografia – meritatissimo – a Roger Deakins, autore di un tour de force tecnico mostruoso per curare le immagini dei lunghissimi piano sequenza che scorrono lungo il chilometro di trincee ricreate per davvero.
Anche Joker, forte di ben undici candidature e di un Leone d’Oro a Venezia, torna a casa con due soli Oscar, di cui uno molto pesante: quello, prevedibile, a Joaquin Phoenix per il miglior attore protagonista e quello a Hildur Guðnadóttir, prima donna candidata per la colonna sonora, cupa e magnifica, nonché prima donna a vincerlo. La bellissima, iconica, ma anche furba, pellicola di Todd Phillips evidentemente non è riuscita a mettere d’accordo tutti, probabilmente per la sua cruda rappresentazione della violenza e per le polemiche che ne sono derivate.
Resta la memorabile interpretazione di Phoenix che nel discorso di ringraziamento ha rimarcato alcuni temi di grande attualità: «Penso che a volte ci sentiamo o siamo fatti sentire come sostenitori di cause diverse. Ma, per quanto mi riguarda, vedo comunanza. Penso che, sia che stiamo parlando di disuguaglianza di genere o di razzismo o di diritti degli indigeni o degli animali, stiamo parlando della lotta contro l’ingiustizia. Stiamo parlando della lotta contro la convinzione che una nazione, un popolo, una razza, un genere, una specie, abbia il diritto di dominare, usare e controllare un altro impunemente. Penso che ci siamo molto disconnessi dal mondo naturale. Molti di noi sono colpevoli di una visione del mondo egocentrica e crediamo di essere il centro dell’universo. Andiamo nel mondo naturale e lo deprediamo delle sue risorse». Inoltre, riferendosi al suo carattere difficile e spesso imprevedibile, ha ammesso con grande onestà di essere stato un mascalzone per tutta la vita: «Sono stato egoista. A volte sono stato crudele, una persona con cui era difficile lavorare e sono grato che così tanti di voi in questa stanza mi abbiano dato una seconda possibilità». Infine, commosso, ha ricordato il famoso fratello River, scomparso prematuramente, che ragazzino gli scrisse: Corri verso il rifugio con amore e la pace seguirà.
Sebbene la performance di Phoenix resterà nella storia del cinema, dispiace il mancato riconoscimento ad Adam Driver, attore di altissima levatura che, dopo un percorso professionale di grandissimo livello – ha lavorato con Martin Scorsese, Terry Gilliam, Spike Lee, Jim Jarmush, Steven Soderbergh –, ha offerto un’interpretazione intensa, complessa e raffinata, tutta giocata sui mezzi toni, in un duetto perfetto con Scarlett Johansson, coniugi nel bellissimo affresco familiare Storia di un matrimonio di Noah Baumbach. L’opera, che pure aveva sei candidature, ha vinto, secondo previsione, solo per la migliore attrice non protagonista Laura Dern, già premiata ai Golden Globe che, commossa, ha ringraziato la madre, la grande Diane Ladd, presente in sala, in lacrime a sua volta.
Il colosso Netflix, produttore appunto di Storia di un matrimonio, esce sconfitto da questa serata in quanto, su ventiquattro nomination ha festeggiato solo quella a Laura Dern, segno che la Academy non gradisce l’interferenza della piattaforma di streaming nel mondo cinematografico che da sempre è domino degli Studios hollywoodiani. Ne fa dunque le spese anche Scorsese che, con le sue dieci candidature per The Irishman, non porta a casa a nulla. Del resto, si sa che il rapporto del regista newyorchese con gli Oscar è sempre stato molto difficile in quanto solo nel 2007 gli fu finalmente conferita la statuetta per The Departed, che, seppur magnifico, non è certamente il suo capolavoro.
Tra l’altro, anche nel 2002 fu candidato a ben dieci premi con il bellissimo Gangs of New York e non ne vinse neanche uno. Un risarcimento morale gli è comunque stato riconosciuto dal palco del Dolby Theatre dal generoso e doveroso discorso di ringraziamento per la miglior regia di Bong Joon Ho. Il cineasta sudcoreano ha affermato di aver studiato cinema sui film del regista di Taxi driver e, infatti, ha citato un motto del grande maestro: il più personale è anche il più creativo. Infine, l’autore di Parasite ha invitato tutti alla standing ovation nei confronti del grande autore italoamericano che giustamente si è commosso.
Ma i riconoscimenti di Bong Joon Ho ai colleghi non sono finiti qua e infatti, subito dopo aver reso omaggio a Scorsese, ha ricordato che quando la sua filmografia era ancora sconosciuta in Occidente, fu Quentin Tarantino a diffondere i suoi film. Veniamo dunque a C’era una volta a Hollywood, ottava pellicola del regista di Knoxville che pure aveva ricevuto dieci nomination, ottenendo soltanto due meritatissime statuette, per la scenografia a Barbara Ling e Nancy Haigh e per il miglior attore non protagonista a Brad Pitt. Tra i pochi a fare accenni diretti alla politica americana, l’attore ha esordito affermando di avere soltanto poco tempo per il suo discorso di ringraziamento, quarantacinque secondi in più di quanto il Senato abbia concesso a John Bolton questa settimana in riferimento ovviamente al mancato impeachment di Donald Trump. Aggiungendo poi: «Forse Quentin potrebbe farci un film. Alla fine gli adulti fanno la cosa giusta». Infine, dopo aver doverosamente ringraziato l’amico Tarantino e il collega Leo Di Caprio, il divo ha riconosciuto l’importanza degli stuntman, avendone interpretato uno, l’immaginario e serafico Cliff Booth, proprio nel film di Tarantino.
In merito alla miglior attrice protagonista, pure scontato era il verdetto positivo per Renée Zellweger, artefice della mimetica, incredibile e sentita trasformazione nella diva Judy Garland del biopic Judy. Dispiace il mancato riconoscimento a Scarlett Johansson per la sua intensa e sofferta interpretazione di Nicole, moglie di Adam Driver nel già citato Storia di un matrimonio, la cui scena del litigio è già entrata di diritto nella storia delle performance attoriali.
Se per la sceneggiatura originale non c’era partita – Parasite vince su tutti –, per quanto riguarda la sceneggiatura non originale stupisce il premio a Taika Waititi e al suo Jojo Rabbit che, sebbene nella prima parte sia una scoppiettante e ardita satira surreale del nazismo, nella seconda si affloscia decisamente. Avremmo gradito maggiormente un premio alla grande intelaiatura storica che Steven Zaillan ha reso con lo script di The Irishman, oppure ancora alla raffinata rilettura attuale che la regista e sceneggiatrice Greta Gerwig ha realizzato con Piccole donne.
Proprio in riferimento alla Gerwig, va sottolineato la sua assenza tra le nomination dei registi, a rimarcare ancora una volta la predominanza maschile in una delle categorie più importanti. Non sono mancate infatti frecciate alla disparità di genere che, nel mondo hollywoodiano continuano a imperversare, nonostante l’affermazione del movimento #MeToo. Nella storia degli Academy abbiamo avuto la sola Kathryn Bigelow a vincere la statuetta per la miglior regia nel 2010 con The Hurt Locker. L’attore Mark Ruffalo infatti, consegnando il premio per il miglior documentario, non ha mancato di sottolineare che in quella categoria erano invece presenti ben quattro candidate. Ha vinto poi effettivamente una donna, Julia Reichert, regista, insieme con Steven Bognar, di American Factory.
Il terzetto Sigourney Weaver, Brie Larson e Gal Gadot, presentando il premio per la colonna sonora, ha rilevato che, per la prima volta in novantadue edizioni, c’era una direttrice d’orchestra a dirigere il medley riassuntivo delle migliori soundtrack dell’anno. La cantante Janelle Monae, che ha aperto la serata con uno straordinario e fantasmagorico numero musicale che riassumeva i principali film in gara tramite vivacissime coreografie, ha iniziato la danza delle polemiche dedicando l’esibizione a tutte le donne che hanno diretto film fenomenali.
Da segnalare, infine, i premi per il miglior montaggio e il miglior montaggio sonoro a Le Mans ’66 – La grande sfida che ci ha regalato memorabili pagine di cinema facendoci immergere nella furia adrenalinica delle gare di competizione su quattro ruote più dure ed estreme del mondo. Dispiace, infine, che per il miglior lungometraggio d’animazione non abbia vinto il bellissimo, poetico e spiazzante Dov’è il mio corpo – prodotto tra l’altro da Netflix – del francese Jeremy Clapin, invece dell’ennesimo Toy Story che, arrivato al quarto capitolo, non aveva più granché da dire: una statuetta decisamente immeritata.
Trascinante l’esibizione di Elton John con la sua (I’m Gonna) Love me again tratta dal biopic Rocketman a lui dedicato, che ha vinto come miglior canzone. Anche Eminem è salito sul palco a cantare Loose Yourself, brano con il quale vinse l’Oscar nel 2003 – fu l’anno del trionfo del suo 8 Mile –, momento in cui il rapper americano ha risvegliato l’addormentata audience del Dolby Theatre, tranne Scorsese, il cui volto semi-addormentato è diventato già meme sui social. Va detto che son dall’anno scorso la consegna degli Oscar è orfana di presentatori degni di questo nome e infatti la serata ha proceduto con le varie star che si sono date la staffetta. Il che non ha aiutato a mantenere alto il livello di attenzione del pubblico.
Oltre che per un’esigua presenza femminile, polemiche non sono mancate anche per la mancata rappresentanza di candidati afroamericani e in questo l’Academy ha fatto un passo indietro dopo l’exploit di Green Book e di Mahershala Ali dell’anno scorso, in risposta a sua volta alle accuse dell’Oscar so white del 2016. Si tratta ovviamente sempre e solo di specchietti per allodole: questo altalenare tra aperture e conservatorismi nella storia degli Oscar fa ormai parte integrante dell’andamento fisiologico dei premi che, da sempre, diventano specchio degli umori e delle tendenze più o meno sotterranee che attraversano la società occidentale.
In conclusione, sebbene i pronostici siano stati confermati per la maggior parte delle candidature, possiamo dire che l’edizione 2020 degli Oscar rimarrà nella storia per l’exploit inatteso dell’outsider Parasite nelle categorie principali. Arrivederci all’anno prossimo.
I premi assegnati:
Miglior film: Parasite
Migliore regia: Bong Joon-Ho per Parasite
Miglior attore protagonista: Joaquin Phoenix per Joker
Migliore attrice protagonista: Renee Zellweger per Judy
Migliore attrice non protagonista: Laura Dern per Storia di un matrimonio
Miglior attore non protagonista: Brad Pitt per C’era una volta a… Hollywood
Migliore sceneggiatura originale: Parasite
Migliore sceneggiatura non originale: Jojo Rabbit
Migliore fotografia: Roger Deakins per 1917
Miglior montaggio: Le Mans ’66 – La grande sfida
Miglior scenografia: C’era una volta a… Hollywood
Migliori costumi: Piccole donne
Migliore colonna sonora originale: Joker
Migliore canzone originale: Rocketman
Migliore trucco e acconciatura: Bombshell
Miglior sonoro: 1917
Miglior montaggio sonoro: Le Mans ’66 – La grande sfida
Migliori effetti speciali: 1917
Migliore film d’animazione: Toy Story 4
Miglior film straniero: Parasite
Miglior documentario: American factory