È successo mentre tutta l’Italia era distratta dalla TV, mentre anche i colleghi dei principali quotidiani erano di casa nel salotto buono della città di Sanremo. Sette giorni – e anche più – in cui il Paese si è scordato di Renzi, Zingaretti, Di Maio, del coronavirus, persino di Matteo Salvini. Null’altro sembrava accadere mentre Amadeus sedava la lite tra Morgan e Bugo, Achille Lauro vestiva i panni di San Francesco e Diodato vinceva il 70° Festival della canzone italiana. Invece, mentre il circo metteva in scena il volto conformista e pacchiano del tricolore, l’accordo politico tra l’Italia e la Libia, in materia di migrazione, si rinnovava tacitamente tra le due parti.
La scorsa settimana, infatti, si è prorogato in via automatica il memorandum firmato nel 2017, quando il Ministro dell’Interno era Marco Minniti e il governo del Paese affidato all’impalpabilità di Paolo Gentiloni, un concordato che sancisce la collaborazione con la Guardia Costiera dello Stato africano da cui, ogni anno, partono alla volta delle coste europee migliaia di donne e uomini disperati. In sostanza, Roma dirotta milioni di euro nelle casse di Tripoli perché quest’ultima contenga l’emorragia umana che si riversa nel Mediterraneo.
In altre parole, l’Italia offre denaro ai centri di detenzione sul territorio della Libia, veri e propri lager in cui i migranti vengono tenuti sotto sequestro e molte volte torturati, denutriti, sottratti ai propri affetti, senza alcuna pietà neppure per i bambini. A partire da domenica 2 febbraio, la criminale connivenza tra il nostro Parlamento e gli stessi soggetti che l’ONU ha ripetutamente accusato di traffico e detenzione di esseri umani resta ufficialmente in atto per almeno altri tre anni.
In verità, lo stesso memorandum è stato oggetto di condanne da parte delle agenzie internazionali per i diritti umani a causa del rischio che rappresenta per la tutela delle persone migranti, tuttavia, l’appello lanciato dal Consiglio d’Europa e le ONG con la richiesta di sospendere l’accordo non è stato accolto dai nostri rappresentanti. A nulla sono valse le indagini di tanti coraggiosi cronisti, le immagini delle violenze che hanno fatto il giro del mondo più e più volte. Inimmaginabili orrori: le Nazioni Unite hanno così etichettato i supplizi, gli stupri, le morti che – ogni giorno – si sono compiute e ancora si compiono a Tripoli, Misurata, Zuwara, mentre HRW ha ribadito come le politiche dell’Unione Europea contribuiscono agli abusi sui migranti in Libia.
Meglio morire in mare che in un lager libico. È questa la sintesi dell’esperienza di Medici Senza Frontiere in visita in alcuni dei centri di detenzione, una preghiera che gli africani affidano al Mediterraneo, una speranza che il suolo del continente nero non accoglie, anzi, soffoca nell’indifferenza del mondo che esporta democrazia.
E anche se ai principali canali d’informazione è sembrato sfuggire, non sono mancate prese di posizione e rimostranze da associazioni e politica. La CGIL ha pronunciato: Chiediamo l’evacuazione di tutti i migranti trattenuti nei centri libici, l’apertura di corridoi umanitari europei, il ripristino di un’operazione vera di soccorso in mare, un’Italia e un’Europa impegnate nell’accoglienza, il rispetto dei diritti umani fondamentali, a cominciare dal diritto alla vita. Ancor più rilevante è stata la posizione del deputato Matteo Orfini, PD: «Gli accordi con la Libia saranno rinnovati senza alcuna modifica. Le promesse del governo non sono state mantenute. Quegli accordi sono una delle pagine più tristi della storia italiana, sicuramente la più triste e vergognosa di quella del mio partito».
L’attuale Ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, già lo scorso novembre assicurava: «Ritengo che il memorandum possa essere sviluppato attraverso ulteriori interventi, rafforzando, in primo luogo, le iniziative volte alla tutela dei diritti umani, al rispetto della dignità delle persone e responsabilizzando al riguardo anche le autorità libiche competenti in materia». Nulla, però, è stato fatto in questa direzione e il patto tra Italia e Libia si è rinnovato alle stesse condizioni del 2017.
Il governo Conte perde, così, l’ennesima occasione di dimostrarsi in controtendenza non solo con chi c’era prima – che ha sfruttato l’accordo siglato da Minniti e Gentiloni per bearsi dei risultati della politica dei porti chiusi e della riduzione degli sbarchi –, ma anche con il sentire dei nostri giorni, con l’istinto nazionalista e razzista che sembra albergare nell’animo di una larghissima fetta del popolo tricolore.
In nome dell’ennesima campagna elettorale da portare a casa, del fianco da non scoprire a Salvini e alla destra – pronti a fotografare il Paese come una terra di latte e miele per terroristi, stupratori e ladri di un lavoro che non c’è per nessuno –, l’Italia rinuncia alla sua dignità, gira lo sguardo, arma la mano di chi affoga migliaia di anime in acqua e gli mantiene la testa fino a bloccarne il respiro, di chi quel fiato lo soffoca tra lamenti e indicibili brutalità.
«Il negoziato con Tripoli procede anche dopo il 2 febbraio. La proposta italiana sarà sottoposta alle autorità libiche e contiamo di concludere rapidamente il negoziato». Ha dichiarato Marina Sereni, viceministro degli Esteri ad Avvenire, facendo finta di non sapere quanto lo Stato africano sappia essere un cliente difficile ed è, pertanto, improbabile che acconsentirà a sostanziali modifiche, soprattutto se queste arriveranno ad accordo già rinnovato e riguarderanno la loro indipendenza a proposito della gestione dei centri e del controllo che Italia e UE vorrebbero – e dovrebbero – adoperare su questi ultimi.
Non è mai troppo tardi, dunque, per la politica che guarda e aspetta il momento opportuno dalle sue poltrone di velluto e gli stipendi a quattro zeri. E invece lo è già. Ogni giorno, ogni istante che passa è già tardi.