Nella vasta opera dell’ottantaquattrenne David Harvey, le riflessioni sulla crisi della modernità e sulla geografia del dominio capitalista costituiscono un importante contributo nel dibattito contemporaneo sul postmodernismo. Il geografo, sociologo e politologo britannico, professore di Antropologia al Graduate Center della University di New York, ha rinnovato l’approccio allo studio della geografia unendola alle analisi fatte dalle scienze umane e sociali.
Dalla laurea a Cambridge alla docenza in Geografia alla Oxford University e presso la Johns Hopkins University, Harvey ha prodotto una letteratura saggistica che è entrata in un ampio dibattito sociale e politico perché ha ripreso la teoria e il metodo del marxismo per costruire una critica radicale al capitalismo globale. Tra i riconoscimenti pubblici, ricordiamo la Patron’s Medal della Royal Geographical Society del 1995 e la sua elezione, nel 2007, a membro della American Academy of Arts and Sciences.
Dopo il trasferimento negli Stati Uniti, l’attenzione teorica del professor Harvey, a cui fa seguito sempre la tensione verso l’azione pratica nell’arena societaria, si concentra sulla geografia umana e sociale e nelle sue opere saggistiche usa il materialismo dialettico di marxiana memoria per descrivere le condizioni umane e sociali che il sistema capitalista produce nell’esistenza quotidiana. Le disuguaglianze economiche e i conflitti interni alla società sono il triste scenario di cui ci parla, analizzando la natura, i limiti e gli effetti perversi prodotti dalla follia capitalista nella vita urbana contemporanea.
Per molti studiosi, tuttavia, è il saggio La crisi della modernità, scritto nel 1989 (in italiano, il Saggiatore, 2002), che segna una tappa fondamentale nel cammino dello studioso britannico come opera tra le più importanti apparse sul postmodernismo nella seconda parte del XX secolo. Il testo ci racconta dell’ideologia tardocapitalista formatasi dagli anni Settanta con il superamento del vecchio modello fordista a vantaggio del postfordismo, nel quale il sistema di produzione è caratterizzato da forme di accumulazione flessibili che mettono in rete diversi modi, tempi e luoghi del lavoro industriale. Ne nasce una diversa e complessa esperienza spazio-temporale che risulta funzionale alla mondializzazione delle attività finanziarie, ma che sconvolge la stratificazione sociale, ridisegnando la vita collettiva e anche le forme dell’espressione letteraria, dell’arte e dell’architettura contemporanee.
Nell’opera Breve storia del neoliberalismo (il Saggiatore, 2007), viene proposta al lettore, invece, la storia del neoliberalismo fino allo stato delle cose attuale, che conferma e rafforza il potere di classe e depaupera le istituzioni democratiche della libertà, in effetti già soltanto nominale, che entra in conflitto con le reali necessità delle comunità umane. Qui e in altre opere, David Harvey scrive una narrazione storica del periodo nel quale la libertà imprenditoriale viene spacciata per sistema volto al più ampio benessere sociale nel periodo tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta del secolo scorso, quando inizia la “liberalizzazione economica” della Cina, cambia la politica monetaria americana e vanno al potere Margaret Thatcher, prima donna ad aver ricoperto l’incarico di Primo Ministro (1979-1990) nella storia della Gran Bretagna, e Ronald Reagan, eletto 40° Presidente degli Stati Uniti d’America, in carica per due mandati (1981-1989).
In saggi recenti, come Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo (Feltrinelli, 2014), lo studioso sottolinea le contraddizioni costituite, tra l’altro, dall’accumulazione del capitale oltre le stesse possibilità di investimento e lo sfruttamento della natura fino a mettere a rischio le grandi ma finite risorse planetarie. La razionalità del sistema riesce a gestire le periodiche crisi economico-finanziarie, ma la mutazione del capitalismo riduce il costo del lavoro con una diminuzione del tempo che intercorre tra investimento e realizzazione del profitto. L’opera Geografia del dominio. Capitalismo e produzione dello spazio (ombre corte, 2018), invece, può rappresentare un’utile e sintetica introduzione al pensiero di David Harvey e alla sua articolata e potente descrizione degli sconvolgimenti che l’accumulazione capitalista produce sugli equilibri economici, sociali e politici, sul lavoro umano e lo sviluppo della tecnologia, sulle ripercussioni ambientali e la crisi climatica in atto.
La follia dello sviluppo e del profitto a tutti i costi produce effetti devastanti sulla vita delle persone, nella catena della produzione, commercializzazione e consumo, diventata ormai da tempo il fine e non più mezzo dell’agire collettivo. E l’autore descrive anche le connessioni tra il sistema capitalista e quello della produzione culturale per indicare possibilità e limiti delle rivolte politiche contro il progressivo assoggettamento dei beni comuni e delle pratiche relazionali alla logica del mercato globale.
Il sistema capitalista, insomma, dà forma alle coordinate spazio-temporali, modifica il paesaggio e i luoghi dell’esistenza secondo la logica unificatrice del mercato che, tuttavia, produce laceranti e distruttive differenze nella geografia umana ed economico-sociale. Nel più ampio orizzonte della cultura, quindi, diventa difficile ma necessaria la ricerca di alternative possibili per un sistema più sostenibile dal punto di vista ambientale e più equo e responsabile nell’ambito delle relazioni umane.