Qualcuno forse ricorderà il finale di Gallipoli – gli anni spezzati (1981), bellissima pellicola di Peter Weir in cui, negli ultimi istanti, i due protagonisti – tra i quali, un giovanissimo Mel Gibson – venivano mandati, invano, in una folle e disperata corsa attraverso le trincee per fermare un attacco suicida. 1917 prende quella semplice ed efficace idea che nell’opera di Weir occupava solo l’ultima manciata di minuti e la dilata per tutto il film.
Siamo appunto nel 1917, il 6 aprile per la precisione, tra le trincee inglesi in territorio francese di quella che all’epoca veniva chiamata solo la Grande Guerra. Due giovani caporali, Tom Blake e William Schofield, vengono spediti in una missione quasi suicida, attraverso la cosiddetta terra di nessuno e oltre le linee nemiche – che dovrebbero essere state abbandonate –, a consegnare un dispaccio per fermare l’imminente attacco di un reggimento di 1600 uomini che sta per cacciarsi in una trappola ordita dai tedeschi. A rendere la missione ancora più personale si aggiunge che, nel battaglione che verrà consacrato al sicuro massacro, milita il fratello di Blake, cosa che mette una certa fretta a quest’ultimo. Lo scopo è dunque sopravvivere e consegnare un messaggio che eviterà una carneficina, almeno per la giornata in corso. La storia è tutta qui, molto basica.
Il film si sviluppa come un survival-war-movie durante il quale i due giovani commilitoni devono attraversare chilometri di territori devastati, a volte spettrali e quasi lunari, ma comunque pieni di insidie e terribili sorprese. Una vera e propria odissea che non esplora le ragioni storiche del primo conflitto mondiale ma sceglie invece di raccontare l’orrore delle trincee dal punto di vista di due soldati che preferirebbero tornare a casa, se potessero.
Tale orrore ci viene narrato tramite un perenne piano-sequenza (long-take), ovvero per mezzo di un’unica ripresa che dura per tutta la pellicola senza apparenti stacchi, seguendo ininterrottamente i nostri eroi in tempo reale, o quasi. Diciamo quasi perché in effetti a un certo punto c’è un’interruzione di cui, però, non diremo per non rovinare la sorpresa. In realtà, come sanno i più avvezzi, il film è il risultato della somma di diversi piani-sequenza, messi insieme tramite abili stacchi invisibili che sfruttano per esempio momenti in cui i protagonisti penetrano in qualche oscuro bunker oppure saltano su un camion. L’impressione visiva che se ne ricava è comunque quella di un unico, estenuante e spettacolare movimento.
Anche chi non mastica il dietro le quinte intuirà che realizzare un’opera completamente in piano-sequenza, anzi in vari piani-sequenza, è tra le cose più complesse e delicate da realizzare al cinema. Occorre un’orchestrazione dei movimenti degli attori, delle comparse, degli elementi scenici coinvolti in perfetta sincronia con i movimenti della macchina da presa. Si devono prevedere, poi, tutti i passaggi dei cameraman attraverso percorsi prestabiliti, anche in spazi ristretti, per poter seguire gli attori senza sosta e soprattutto per non perdere la continuità dell’azione. Si intuisce, quindi, un gran lavoro di “staffetta” tra i vari operatori che si sono scambiati la cinepresa senza che il pubblico potesse accorgersene, ovviamente con l’utilizzo di tecnologie leggere nei supporti delle camere prima impensabili.
Il lavoro fatto dal direttore della fotografia Roger Deakins – candidato per ben 15 volte all’Oscar, compresa ovviamente l’attuale, e vincitore nel 2018 per Blade runner 2049 – ha infatti dell’incredibile e, guardando il film, si può soltanto immaginare il tour de force al quale sarà stata sottoposta la troupe per realizzare una tale fatica cinematografica. Non si può evitare di plaudire, poi, la capacità di Sam Mendes – cineasta già premiato con l’Oscar nel 2000 per American Beauty, nonché autore di Era mio padre (2002), Revolutionary road (2008) e degli ultimi due Bond-film – nell’immaginare e coordinare il tutto. Non ultima, la scenografia che fa letteralmente avvertire l’umidità del fango, nonché l’odore di putrefazione di uomini e animali lasciati sulla terra da una guerra atroce. Il suono, invece, aggredisce lo spettatore con tutto il traumatico impatto di una granata che esplode a pochi metri da lui.
Non ci addentreremo, ovviamente, nei mille pericoli che dovranno affrontare i due soldati per non disinnescare i colpi di scena che vi attendono in questo percorso che, se da un lato ricorda certi videogiochi 3D di guerra in semi-soggettiva, dall’altro regala a chi guarda la sensazione visiva, ma anche tattile e uditiva, di trovarsi davvero a percorrere quei chilometri di devastazione e orrore che separano Blake e Schofield dal compimento della loro missione. È un cinema di percezioni e sensazioni quello che costruisce Mendes e il piano-sequenza diventa la forma ideale per raccontarle.
Non a caso, Pasolini diceva che la vita è come un lunghissimo piano-sequenza il cui senso viene dato soltanto dalla morte. Oppure, ancora, André Bazin, grande teorico della settima arte, individuava in esso l’unico espediente con il quale il cinema riusciva a restituire davvero la verità di un momento o di una scena senza barare con i trucchi del montaggio.
Oggi, con i miracoli della computer grafica che inserisce artifici digitali dalla qualità foto-realistica davvero impressionante, le affermazioni di Bazin sono diventate ovviamente relative e dunque ancora dobbiamo comprendere cosa significhi tutto questo da un punto di vista ontologico. Va detto, però, che, dopo l’abuso che si è fatto del digitale tra gli anni Novanta e i Duemila, la direzione attuale della messa in scena cinematografica di molti grandi kolossal è di utilizzare quanto più possibile scenografie vere, o comunque ricostruite dal vero, con acrobazie ed esplosioni ricreate sul set, senza ricorrere eccessivamente alla CGI (Computer Generated Imagery). In ogni caso, anche quando quest’ultima viene utilizzata, non dà più quella sensazione di finto o patinato che dava una volta ed è indistinguibile da ciò che è reale. Ma per non finire in riflessioni dal sapore filosofico, o semplicemente philip-dickiano, che esulano da una semplice recensione, ci limiteremo a segnalare che in 1917 l’uso della CGI è minimo e infatti consigliamo, a chi è interessato, di andare a vedere alcuni degli spettacolari filmati di backstage del film che è già possibile reperire in rete.
La storia è ricca, ma non esageratamente, di piani-sequenza che erano anche dichiarazioni di poetiche e di modi di intendere il cinema: dallo sperimentalismo del Welles di Quarto potere (1941) e L’infernale Quinlan (1958) all’Hitchcock del gustoso Nodo alla gola (1948), dalle riflessioni esistenziali dell’Antonioni di Professione reporter (1975), fino al de-costruttore De Palma di Omicidio in diretta (1998), passando per il virtuosistico Arca russa (2002) di Sokurov fino allo scoppiettante Iñárritu di Birdman (2014). 1917 si inserisce dunque in questa importante tradizione estetica senza le stesse ambizioni filosofiche dei grandi maestri del passato, ma comunque non privo di implicazioni teoriche interessanti. Vedremo infatti come.
Il film di Mendes aggiunge sicuramente un tassello importante nel genere war-movie, ambito che negli ultimi decenni ha sfornato capolavori come Salvate il soldato Ryan (1998), di cui 1917 condivide la semplicità della missione e la vividezza con cui restituisce il dettaglio del conflitto, con la differenza che Mendes lascia gli elementi più efferati volutamente fuori campo. Ed è proprio nel suo giocare continuamente con ciò che accade fuori che 1917 trova una sua cifra stilistica efficace.
Se il contenuto diventa forma tramite un “unico” piano-sequenza su cui si regge l’intera narrazione, è il rapporto visivo che il regista stabilisce con ciò che non vediamo che diventa fondante. Proprio perché siamo sempre incollati ai protagonisti, di cui riusciamo a scorgere ogni stato d’animo ed emozione, anche allo spettatore spesso è precluso ciò che accade all’esterno dell’inquadratura, sebbene si avverta la presenza di un mondo vivo e minaccioso, merito di una messa in scena perfetta. Ecco che in questa dialettica tra ciò che è visibile e ciò che possiamo solo intravedere o intuire, si cela forse il senso di 1917.
Lo spettatore/soldato/videogiocatore è coinvolto, dunque, in prima persona e, man mano che avanza, si chiede cosa succederà al prossimo livello in cui la minaccia sarà sicuramente superiore. Questo paragone video-ludico non è affatto dispregiativo ma, anzi, ribadisce uno statuto interessante dell’opera che si pone in una posizione interlocutoria nei confronti degli altri media, pur non avendo lo spessore di alcune sperimentazioni del passato. Inoltre, a differenza del capolavoro spielberghiano, in cui si faceva largo uso della macchina a mano con il fine di rendere il film più documentaristico, qui la camera si muove fluida ed elegante, anche attraverso varchi e pertugi che avrebbero invitato molti registi a riprese da mal di testa.
Con Dunkirk (2017), il bellissimo film di Christopher Nolan sull’assedio dell’omonima spiaggia francese nel corso della Seconda Guerra Mondiale, 1917 condivide invece la visione di un cinema che non indaga tanto nella storia ma restituisce con immediatezza e impatto audio-visivo impressionante le sensazioni che si provano quando si vive il conflitto bellico in prima persona. In questo, trovando anche la propria cifra morale trasmettendoci dunque il sottotesto, tanto universale quanto abbastanza scontato, che in ogni guerra di tale tragica e immensa portata ciò che conta non è vincere, ma sopravvivere.
Non ci sentiamo di scomodare il Kubrick di Orizzonti di gloria (1958) se non per una coincidenza di conflitto bellico trattato. Lì c’era una riflessione sulla follia e l’iniquità delle gerarchie militari, totalmente assente in Mendes. Del capolavoro kubrickiano, però, possiamo rilevare soltanto i frequenti travelling visivi, a precedere i protagonisti attraverso le trincee.
Il film è dedicato al nonno del regista, che combatté nella Prima Guerra Mondiale e che era solito avvincere il nipote con incredibili e, a volte spassosi, aneddoti di quegli anni. Elemento, questo, rinvenibile in alcuni dialoghi faceti tra i due personaggi principali, che in qualche momento alleggeriscono la tensione. Ma mentre i due protagonisti, George MacKay (Captain Fanastic e la mini-serie 22/11/63) e Dean-Charles Chapman (il ruolo di Tommen in Trono di spade) non sono conosciutissimi al grande pubblico, il cast, nei ruoli secondari, si arricchisce di attori del calibro di Colin Firth, Benedict Cumberbatch e Mark Strong.
In conclusione, ciò che dice 1917 è davvero semplice e per nulla originale, ma è detto dannatamente bene. Se da un lato dunque non ci meravigliamo delle numerose candidature della Academy – dieci in tutto, tra cui miglior film – nelle categorie cosiddette “tecniche”, compresa quella meritatissima alla regia, ci stupiamo invece di quella per la sceneggiatura che, diciamolo, non è il pezzo forte di questa pur magnifica pellicola. Un’opera che, comunque, offre non pochi spunti teoretici interessanti sulla forma filmica e sulla direzione che essa sta prendendo in relazione alle tecnologie impiegate.
Un’ultima raccomandazione: si veda il film rigorosamente in sala, altrimenti perderebbe molto della sua ragione di essere.