Il quartiere di Napoli Chiaia era una delle zone più ambite per le abitazioni di svago. Il suo nome deriva dal termine latino plaga, dal catalano platja e dal castigliano playa, che significa spiaggia. Successivamente, per motivi linguistico-dialettali, il quartiere ha preso il nome di Chiaja in quanto, un’antica etimologia oggi abbandonata – come racconta Giambattista Ajello in Napoli e i luoghi celebri nelle sue vicinanze – supponeva che il luogo non fosse altro che la plaga olimpica, dove la Napoli antica celebrava i giochi e le feste di Giove.
Giulio Cesar Capaccio nel suo libro Il Forestiero racconta della Chiaia del Cinquecento come una zona dove gli arbori hanno i giardini che in tutte le stagioni ha fiori, verdeggiano con spalliere di aranci, di cedri di soavità incredibile […] Nel frontespizio ha una spiaggia di mare […] Tutto il resto è pieno.
Don Pedro de Toledo, viceré di Napoli per più di vent’anni, attuò importanti riforme e tra queste vi fu il riassetto urbanistico della città. Nello specifico, per la fascia costiera – inizialmente occupata da capanne da pesca e piccoli insediamenti di pescatori locali – potenziò le mura sul lato mare e realizzò un vasto programma urbanistico con la bonifica della zona, la ricostruzione o creazione di una nuova rete viaria. Questi lavori, come raccontano Yvonne Carbonaro e Luigi Cosenza nel libro Le ville di Napoli, favorirono il sorgere di fabbriche aristocratiche circondate da parchi e il restauro di facciate sia religiose che private.
La villa aragonese di Chiaia, La Ferrantina, all’inizio del periodo spagnolo divenne dimora estiva del cardinale Pompeo Colonna, nominato viceré di Napoli da Carlo V a seguito della sua fuga dopo il Sacco di Roma, chiedendo protezione al sovrano. Colonna amava particolarmente il giardinaggio e ai suoi visitatori mostrava i giardini della villa, resi splendidi dalla sua cura e dall’aver dotato la zona, precedentemente arida, di acqua. Alla sua morte, La Ferrantina si fece residenza del viceré don Pedro de Toledo e, successivamente, luogo di ritiro anche del figlio, don García. Quest’ultimo arricchì ulteriormente l’abitazione con meravigliosi giochi e labirinti d’acqua, emulazione e gara tra natura e arte, proprio come era gusto a quel tempo. Questi luoghi presero il nome di Horti toletani e furono organizzati sulla base di articolati viali, esedre, grotte e sorprese che avevano lo scopo di stupire chi li visitava.
Purtroppo, verso la fine del Seicento, i giardini furono smembrati e la villa comprata dalla Regia Corte che vi sistemò la caserma e le stalle della cavalleria. Gino Doria racconta che durante il periodo borbonico, dal lato di San Pasquale, era allocato il I Reggimento Usseri, invece verso largo Ferrantina il I Reggimento Svizzero.
Nella zona di Chiaia, inoltre, vi era una torretta immersa nel verde, collocata, secondo Benedetto Croce, alla Piazzetta Terracina oltre via Santa Maria in Portico, raggiungibile tramite una stradina che si chiamava Cupa Terracina. Croce scrive: Nel fondo di un primo corsaletto, in un andito scuro, è la porta dell’antica torre, e sull’arco che mostra le linee dell’architettura cinquecentesca, si osserva uno scudo con l’arma dei Terracina, dimezzata e sostituita da una sigla nella parte superiore.
Questa abitazione era di proprietà di Giacomo Terracina che viveva insieme alla sorella Laura, celebre poetessa del Cinquecento. Come testimoniano Yvonne Carbonaro e Luigi Cosenza, da quel luogo la poetessa era solita datare le sue lettere e le dediche dei suoi volumi di rime e lì venivano a farle visita i letterati con cui era in contatto; fu molto amica tra gli altri del poeta Luigi Tansillo e di Vittoria Colonna e di Giovanni Alfonso Mantegna di Maida a cui dedicò diversi teneri versi. Napoli era per la poetessa la più dolce et vaga Città del mondo […] serva di gente fiera sotto giogo indegno.