Se fossimo negli Stati Uniti dei decenni ‘40-‘50, Craxi sarebbe perfetto per essere interpretato – e anche diretto – da Orson Welles. Questo perché il Craxi di Gianni Amelio e Pierfrancesco Favino possiede quell’aura di grandezza decadente e sinistra – non nel senso politico – che ha sempre caratterizzato i personaggi wellesiani bigger than life, tutti dichiaratamente shakespeariani ma sempre terribilmente attuali e moderni.
Nelle mani di Amelio, il famigerato politico italiano diviene una figura oscura ed evanescente che richiama il Charles Foster Kane di Quarto potere (1941) il quale, quando non riesce più a influenzare la politica e i destini delle nazioni, si ritira nella sontuosa villa di Xanadu. La casa di Craxi in Tunisia non ha la sfarzosità della dimora di Kane ma il concetto è lo stesso. Tuttavia, mentre il capolavoro di Welles trova nell’esilio soltanto il prologo e l’epilogo ideali per la parabola del magnate della carta stampata – ispirata a William Randolph Hearst –, Amelio in Hammamet sceglie di raccontare il solo periodo di allontanamento come momento di riflessione amara.
Ancora in ambito di personaggi wellesiani, c’è da rievocare l’ambiguo capo della polizia Hank Quinlan di Touch of Evil (1958), personaggio che si ritiene al di sopra della legge e che, pur di perseguire un fine ultimo più grande, non esita a sporcarsi le mani fabbricando prove per incastrare coloro che reputa colpevoli secondo il suo intuito. Non è difficile, dunque, riconoscere nell’incedere claudicante, accompagnato da un’immancabile bastone, dell’ex Segretario del partito socialista, l’andatura minacciosa del commissario di polizia reso immortale da Welles, che si pone al di là del bene e del male perché egli stesso incarna la giustizia, o meglio, la sua idea di giustizia.
Se da un lato l’esilio tunisino è servito a Craxi per sfuggire alla giustizia italiana dunque, dall’altro è stato sfruttato da Amelio come location ideale per riflettere sulla politica dell’epoca e sull’uomo, nonché per fornire qualche spunto interessante anche sul presente. Il prologo del film è ambientato durante il 45° congresso socialista del 1989 alla Ansaldo di Milano, nel corso del quale Craxi fu riconfermato Segretario del partito. La scenografia di Giancarlo Basili ricostruisce in modo preciso la piramide di Filippo Panseca, designer dei congressi socialisti dell’epoca, in cui svettava il volto gigantesco del leader triplicato come in una scenografia futuribile che in parte ricorda i maxischermi disseminati un po’ ovunque in cui appariva l’Alto Cancelliere, sorta di Grande Fratello dittatoriale dell’Inghilterra distopica in V per vendetta (2005). Enorme, dunque, ci appare Craxi nel prologo, nonché arrogante, superbo e sicuro di sé, ma pronto a cadere come gli profetizza Vincenzo Sartori, il balbuziente e vecchio compagno di partito interpretato dal grande Giuseppe Cederna. Questi lo avverte, come una moderna Cassandra, dell’imminente tragedia giudiziaria che si abbatterà sul PSI e su di lui in particolare. In risposta, il Segretario, ex Presidente del Consiglio, nella sua tracotanza, lo schernisce definendolo anima bella, ricordandogli di aver usufruito anche lui dei favori e degli agi che all’epoca garantiva la militanza nel partito dei nani e ballerini.
Dopo il titolo, un gruppetto di ragazzini tunisini ci accompagna, tramite un lungo piano-sequenza, fino alla villa in cui ha trovato rifugio Craxi, infiacchito nel corpo, ma non nello spirito. Il politico ha la battuta sempre pronta e, come un serpente, è sempre pronto a mordere, anche chi gli sta vicino con amorevolezza. Al pari di un sultano riceve visite: il democristiano – interpretato dal magistrale Renato Carpentieri – che lo invita a tornare in Italia perché tanto, ridotto com’è, gli darebbero solo i domiciliari, ricordandogli, inoltre, che tra i tanti soldi presi dai partiti molti spiccioli sono rimasti impigliati tra le dita; e l’amante – interpretata dall’efficace Claudia Gerini – che afferma di conoscerlo intimamente ma in realtà è soltanto soggiogata dal fascino dell’uomo di potere. Questi personaggi non sono identificabili con nessuna persona realmente esistita, ma sono paradigmatici, rappresentano dunque tipologie con le quali Craxi si confronta.
Invece, i turisti italiani che il Presidente – così viene appellato per tutto il film – incontra casualmente al porto di Hammamet e che lo linciano verbalmente rappresentano il pubblico, i cittadini che all’epoca gli lanciarono le monetine davanti all’Hotel Raphael e quelli che, anche se non lo hanno materialmente fatto, avrebbero voluto essere lì a sputargli in faccia il loro disprezzo. Per tutti Craxi ha la risposta pronta, sferzante e auto-indulgente, sia per gli indignati che per gli amici che vanno a trovarlo o perfino per coloro che cercano di stargli vicino, come la figlia Anita – nella realtà Stefania – che lo accudisce e il figlio Bobo che cerca di riabilitarlo in patria. Solo Anita – in realtà Stefania ma chiamata così nel film in richiamo alla passione tutta craxiana per Garibaldi – sembra comprenderlo nel momento in cui gli rivela di avere ereditato la sua cattiveria. E, infatti, sul televisore di casa vediamo scorrere le immagini di Le catene della colpa (1947), mitico noir di Jacques Tornuer, in particolare la scena in cui Robert Mitchum e Jane Greer si riconoscono nelle loro cattiveria e per questo si piacciono.
Nella tv casalinga scorrono anche le immagini di altri due classici: uno è Là dove scende il fiume (1952) di Anthony Mann, pellicola prediletta da Anna, moglie di Craxi che ha permesso di girare il film nella villa originale; e Secondo amore (1955) di Douglas Sirk, il maestro dei melodrammi intimi che Amelio sente come padrino spirituale nel rappresentare la tragedia psicologica di Hammamet dal sapore shakespeariano. È lo stesso Amelio infatti a dichiarare: «Ho mostrato tre facce del cinema che amo, sperando che qualcosa del suo splendore illumini per pochi attimi le mie inquadrature». E, in effetti, qualcosa dello splendore del cinema classico illumina anche Hammamet soprattutto, come abbiamo già detto, nel donare al Presidente una statura da grande personaggio shakespeariano, paragonabile, se vogliamo, al deforme e crudele Riccardo III.
È significativo, inoltre, che la scena mostrata, tratta dal film di Sirk, riguardi proprio l’installazione di un apparecchio televisivo in casa dei protagonisti. Il tecnico enumera i numerosi vantaggi del nuovo elettrodomestico in quanto finestra sul mondo nonché balia intrattenitrice, strumento erogatore dei contenuti più disparati, dai cine-giornali ai drammi televisivi alle commedie, in un gioco di rispecchiamento della vita che diventa discorso meta-cinematografico all’interno di un film il cui protagonista, in vita, ha fatto dell’immagine televisiva una componente essenziale della sua politica, cosa che verrà non a caso ripresa e amplificata dal suo prodotto politico più emblematico, che beneficò tra l’altro dei suoi decreti, cioè Berlusconi. Non è irrisoria dunque la riflessione politica sottesa a un’apparentemente semplice e fugace citazione.
Alla voce di un bambino, nipote di Craxi, viene invece affidato il racconto della crisi nella base aerea di Sigonella, durante la quale Craxi, allora Presidente del Consiglio, tenne duro con gli americani che volevano estradare in maniera violenta i terroristi palestinesi responsabili del dirottamento dell’Achille Lauro. I fatti ci vengono spiegati con la semplicità delle parole di un bimbo che gioca con il modellino di un aereo sulla spiaggia, circondato da tanti soldatini. In questa semplicistica rappresentazione viene ricordato un momento alto della politica craxiana, che va ad affastellarsi, in modo un po’ cumulativo va detto, con gli altri episodi che costellano il film.
Amelio affida poi i promemoria di Craxi a una telecamerina amatoriale. Tali momenti vengono sottolineati da inquadrature in formato 4:3, cioè più strette del formato panoramico tipico del cinema. In un certo senso questo espediente formale serve a virgolettare gli enunciati del Presidente, a prenderne dunque le distanze. Sia quando afferma con arroganza la legittimità del proprio operato nel nome di un bene superiore sia quando riserva stoccate al nostro presente. Per esempio, quando il personaggio ragiona sulla sostituzione della parola popolo, portatrice di una coscienza e di un’identità, con la parola gente, che invece indica una massa anonima di individui in nome della quale si fa una politica populista e demagogica. In questo esce fuori, un minimo, lo statista dalla visione precisa e lungimirante in contrapposizione alle modalità attuali del fare politica. Si potrebbe però legittimamente obiettare che lo stesso Craxi, col suo operato spregiudicato, non sfuggiva a tali logiche e che le modalità attuali del fare politica sono in realtà figlie del suo modo di fare, ma crediamo che il film di Amelio non taccia affatto sulle contraddittorietà del personaggio, anzi ce le mostra in tutta la loro vividezza.
La telecamera amatoriale con cui vengono registrate le esternazioni craxiane viene adoperata da Fausto, personaggio immaginario, figlio di Vincenzo Sartori, che penetra nella villa e viene ricevuto con affetto da Craxi. Questi si sente evidentemente responsabile della morte del genitore che ha preferito buttarsi dalla finestra piuttosto che affrontare la giustizia. Ecco quindi l’instaurarsi di un rapporto padre-figlio che diviene centrale nel film, così come lo era in Colpire al cuore (1983), primo lavoro di Amelio in cui Jean Louis Trintignant aveva un figlio terrorista che era interpretato appunto da un attore di nome Fausto Rossi. In effetti, in molta filmografia del regista il legame padre-figlio, che sia letterale oppure metaforico, è sempre fondante e così qui il giovane Fausto funge da contraltare agli sproloqui in video di Craxi, anzi quasi da grillo parlante, ovvero da coscienza che gli mette davanti continuamente le sue responsabilità. Non solo, proprio a Fausto verranno affidate alcune rivelazioni, sempre in video, che farebbero tremare l’Italia. Il rapporto filiare che si instaura susciterà inoltre le gelosie della figlia Anita/Stefania che si vedrà improvvisamente scalzata. Vista la centralità del personaggio di Fausto, stupisce la scelta di affidarne il ruolo a un attore assolutamente non a livello, come Luca Filippi. La sua recitazione atona o forse, peggio, la scelta registica di farlo recitare così, purtroppo non funziona. Neanche Livia Rossi, interprete della figlia, convince sempre.
Chi, invece, convince senza dubbi è Pierfrancesco Favino che offre un’interpretazione memorabile, non solo fisicamente mimetica, grazie all’ausilio di un trucco prostetico perfetto, ma soprattutto grazie all’incredibile lavoro fatto sulla propria voce che lo rende identico nei toni e negli atteggiamenti al politico socialista. Solo dagli occhi, a momenti, traspare ancora un po’ il luccichio dell’anima di Favino, il resto è puro Craxi. Se fosse possibile candidarlo agli Oscar vincerebbe certamente.
Nella parte finale, il film vira sul registro onirico, con una scena in puro stile felliniano – in cui intervengono i redivivi e surreali comici Adolfo Margiotta e Massimo Olcese – della quale non vogliamo anticipare e che richiama in qualche modo anche la visionarietà del miglior Bellocchio. Possiamo però dire che anche qui, nei momenti conclusivi della sua vita, il Presidente verrà messo di fronte alle proprie colpe e responsabilità, le quali sembrano ironicamente cominciare da una marachella immaginaria che commette da bambino, evento che apre e chiude la pellicola in maniera circolare.
Al netto di qualche debolezza nell’impostazione recitativa di alcuni personaggi e di una narrazione eccessivamente aneddotica, dunque, il film di Amelio restituisce comunque tutta la complessità e ambiguità di un personaggio come Craxi che tanto ha influito sulla vita pubblica italiana, pur non indagandone nel dettaglio l’operato ma scandagliandone l’animo in modo originale e visionario. L’opera, densamente stratificata di sensi e letture, non ne elude affatto le colpe né riabilita politicamente il protagonista, ma ne estrae l’umanità, nelle sue ombre e luci, e ce lo mostra nudo, per quanto sia possibile. Sì perché, d’altro canto, Hammamet ce ne svela paradossalmente anche l’impenetrabilità, così come ci ricordava il cartello No trespassing posto nel prologo di Quarto potere. In fondo, è impossibile penetrare davvero nel cuore di un uomo perché la sua interiorità diventa un luogo inaccessibile a qualunque indagine, come una villa sperduta nel deserto tunisino.