Quello che l’Australia sta vivendo nelle ultime settimane è un vero e proprio inferno. Sono 5 milioni gli ettari di terra bruciata, un numero che fa impallidire per la sua estensione e per le conseguenze che sta causando all’ecosistema locale, alla sopravvivenza di milioni di animali e alla vita delle persone che abitano il continente.
In realtà, l’Australia iniziava a bruciare già a settembre, quando la primavera incalzante prometteva una spaventosa ma ancora lontana estate. Allora, l’estensione degli incendi non era particolarmente rilevante perché la nazione, nelle zone più secche e aride, è sempre stata terra di incendi altrettanto catastrofici. Il giovedì nero del 1851, ad esempio, aveva bruciato 5 milioni di ettari dello Stato di Victoria, il 1974 4.5 milioni nel Nuovo Galles del Sud e ancora 3.5 milioni nel 1985. Insomma, vegetazione e clima hanno sempre permesso al fuoco di aggredire il territorio, ma sono innumerevoli le differenze che rendono gli incendi attuali infinitamente più gravi. Ora a bruciare sono le zone umide, da sempre caratterizzate da abbondanti piogge e abitate da foreste pluviali, alberi rigogliosi fonte di ossigeno e fauna pressoché unica.
Le micce che hanno dato il via agli incendi sono state le più disparate: tralicci della corrente caduti, errori umani involontari e parecchi casi di dolo. A tal proposito, più di 300 persone sono indagate, al momento, per aver appiccato fuochi in tutto il continente. Una buona parte di piromani è composta da minorenni e da giovani che non intendono creare le catastrofi che poi si verificano. Eppure, nonostante le diverse origini dei roghi, a renderli tanto indomabili è l’inarrestabile cambiamento climatico. Ogni estate che l’Australia vive è più calda, anzi più bollente, della precedente. Il 17 dicembre è stato registrato come la giornata più rovente di sempre con una temperatura pari a 41.9°. I venti – gli stessi che hanno sradicato i tralicci ad alta tensione – sono diventati incontrollabili, raggiungendo i 100 chilometri orari, una velocità che impedisce a pompieri e soccorritori di stare al passo con le fiamme, che si espandono e divorano milioni di ettari di terreno.
Secondo la comunità scientifica è difficile correlare gli incendi e l’attività umana in una relazione diretta di causa-effetto, ma è anche vero che l’Australia è uno dei territori maggiormente esposti ai mutamenti climatici. Per la sua posizione, che confina sia con i tropici sia con il deserto, circondata da due oceani diversi, è molto più difficile prevedere gli effetti che il riscaldamento globale produrrà.
Al banale aumento delle temperature – che, per quanto sia particolarmente insistente sul continente oceanico, coinvolge l’intera superficie terrestre –, si uniscono numerosi e radicali mutamenti del clima, come i forti venti sopracitati e la siccità, che risultano sempre più imprevedibili su un territorio dalle condizioni atmosferiche tanto complesse. E, in questo caso, la correlazione con il riscaldamento globale è innegabile: da una parte, le anomale variazioni di temperatura tra un lato e l’altro dell’Oceano Indiano hanno impedito alle solite piogge e alla conseguente umidità di raggiungere il continente oceanico; dall’altra, l’atipicità delle correnti antartiche ha contribuito alla persistenza di aridità, rendendo il clima australiano terribilmente secco e la sua vegetazione il combustibile perfetto per le fameliche fiamme. Dulcis in fundo, la stagione dei monsoni proveniente da nord è in ritardo, favorendo un ulteriore aumento delle temperature nelle zone centrali lontane dal mare.
La differenza tra gli incendi australiani e quelli che hanno infestato l’estate boreale – che pure hanno preoccupato per le conseguenze – sono enormi. Si stima che in tre mesi – e si ricorda che l’estate è appena cominciata – sono stati prodotti 350 milioni di tonnellate di anidride carbonica, una quantità che avrà bisogno di oltre un secolo per essere riassorbita. 480 milioni di animali sono morti, mentre quella del Nuovo Galles del Sud è la più grande evacuazione che l’Australia ha mai ospitato. E mentre gli incendi dell’Amazzonia hanno deforestato 900mila ettari di territorio e quelli in California 1.8 milioni, l’Australia al momento ne ha già persi tra le fiamme 5 milioni. Il conteggio delle vittime è a 25, mentre sono mille le abitazioni distrutte.
Le piogge degli ultimi giorni hanno concesso una piccola tregua ai vigili del fuoco, ma il Primo Ministro del New South Wales ha dichiarato una settimana di stato d’emergenza, soprattutto in previsione della giornata di sabato prossimo che rischia di portare condizioni climatiche addirittura peggiori. Dopo anni di negazione, soprattutto a causa di interessi economici, il governo ha quindi riconosciuto uno stato di emergenza in qualche modo legato al tanto ignorato cambiamento climatico, nonostante si continui a smentire un legame diretto tra i due fenomeni.
D’altronde, l’economia australiana ha fin troppi interessi nell’esportazione di carbone e accettare l’esistenza del cambiamento climatico e delle sue tragiche conseguenze causerebbe danni economici – a quanto pare – peggiori di quelli che le fiamme stanno producendo.
I vigili del fuoco, i volontari e la gente comune lavorano al limite delle forze da mesi nel tentativo di rallentare l’avanzata delle fiamme che, nella loro instancabile cavalcata, adesso minacciano di unire i due grandi roghi degli altopiani meridionali in un unico enorme, irrefrenabile incendio. Intanto, mentre il gioco dei soldi continua a vincere su quello della vita, il cielo di Sidney non è più azzurro da giorni. Tinto di grigie ceneri e di detriti aranciati, regala un’aria irrespirabile che mette in pericolo la città più abitata del continente. E mentre il resto del mondo osserva inerme, anche il fumo e la cenere non si fermano, raggiungendo la vicina Nuova Zelanda, dove hanno persino i candidi ghiacciai oggi sono marroni.