Dopo l’analisi del Pinocchio cinematografico di Matteo Garrone, continuiamo nel solco della favola di Collodi con un medium differente. A dicembre è stata pubblicata da Bugs Comics la graphic novel Geppetto, storia di un padre, scritta da Gianmarco Fumasoli – autore, tra l’altro, del nuovo personaggio a fumetti Samuel Stern, disegnata da Francesco Dossena e colorata da Francesco Segala.
Non si tratta della storia del burattino più famoso del mondo, bensì di quella del suo babbino, il buon Geppetto, prima che finisse di costruire la celebre marionetta. La narrazione comincia in medias res, la fabbricazione di Pinocchio è in pieno work in progress: in effetti, si tratta quasi di un prequel. Quasi perché la creazione di Pinocchio è già in corso, dunque gli eventi sono coevi all’avvio narrativo della storia di Collodi. Il burattino per ora è solo a metà, gli mancano ancora le gambe e non ha un volto. Eppure, il falegname già parla con lui o, meglio, risponde alle domande immaginarie di Pinocchio. Noi lettori, però, non siamo in grado di dire se la marionetta abbia effettivamente pronunciato delle parole, il tutto potrebbe essere soltanto nella testa del povero Geppetto. Inoltre, non conosciamo le origini del ceppo parlante e non c’è nessun Mastro Ciliegia in giro.
Altro elemento eretico rispetto alla fiaba è che Geppetto fabbrica le marionette proprio per quel famigerato Mangiafuoco che possiede il teatro dei burattini. In effetti, tra le innumerevoli rivisitazioni della storia, è strano che nessuno avesse mai pensato di mettere i due in un rapporto di lavoro. Ora che invece lo vediamo realizzato sembrerebbe la cosa più naturale del mondo. La peculiarità è che i fantocci costruiti dal falegname su commissione hanno tutti la capacità di parlare. L’origine dei ceppi, da cui il buon vecchio ricava i suoi burattini, è infatti magica e si trova in una remota radura in fondo a un bosco innevato. Questo lascerebbe dunque supporre che anche il ceppo da cui viene fabbricato Pinocchio abbia la stessa origine, eppure non lo vediamo parlare. Che sia dunque tutta un’allucinazione del povero Geppetto? Oppure semplicemente il burattino non è ancora finito? Forse il solo Geppetto, in quanto creatore, può avvertire i suoi pensieri? State tranquilli perché il dubbio verrà infine sciolto.
Il cuore della vicenda, però, è nel rapporto di potere che c’è tra Geppetto e il prepotente Mangiafuoco. Scordiamoci, infatti, il gigante burbero che nella favola di Collodi si scopre tenero dopo un paio di starnuti. Il Mangiafuoco di Fumasoli e Dossena è proprio un bad motherfucker, un vero bastardo fino al midollo. Incarnazione del male inteso come violenza e sfruttamento degli altri, il proprietario del teatro di burattini ci viene presentato non a caso in un’enorme vignetta – che occupa tre quarti della pagina – in tutta la sua minacciosa e imponente figura nell’atto di staccare la testa a una povera marionetta che aveva sbagliato una battuta durante una rappresentazione. Un errore comune per il quale Mangiafuoco se la prende con Geppetto. È dato per scontato, dunque, che siano senzienti, eppure il terribile orco non ci vede nulla di miracoloso se non un mezzo per farci soldi.
Nella figura di Mangiafuoco, quindi, gli autori sono riusciti a incrociare il ruolo archetipico dell’orco delle favole con tutto il suo bagaglio fiabesco/fantasy e la spietatezza efferata tipica di tanta produzione cinematografica post-moderna. A tal proposito, sono chiari i riferimenti a Quentin Tarantino. C’è una scena in particolare in cui Mangiafuoco, armato di un cacciavite, armeggia con la testa di un povero burattino arrivando poi a trafiggerla e a romperla proprio come faceva con il teschio di un povero schiavo il terribile proprietario della piantagione Candyland, ovvero l’odioso Calvin Candle, interpretato da Leonardo Di Caprio in Django Unchained (2012). L’analogia è palese: che siano afroamericani deportati e trattati come oggetti oppure oggetti senzienti tormentati e vessati, non c’è differenza. C’è sempre qualcuno pronto a sfruttare e spremere violentemente il prossimo per il proprio tornaconto. L’omaggio a Tarantino non arriva gratuito né si tratta di una citazione buttata lì così: essa si inserisce perfettamente e organicamente in una storia in cui sarà la vendetta, tema caro al cineasta di Knoxville, a farla da padrona.
Ma mentre in Django c’era un afroamericano, Jamie Foxx, che faceva fuori bianchi schiavisti a bizzeffe, in Inglorious basterds – sempre di Tarantino – c’era una donna ebrea, Melanie Laurent, che dopo aver avuto la famiglia trucidata dalle SS si vendicava spazzando via Hitler con tutto il suo stato maggiore. In quest’ultimo caso certa stampa usò la paradossale definizione di Kosher porno, ovvero del piacere proibito da parte del popolo di Davide, di vedere su schermo la concretizzazione della propria vendetta violenta nei confronti dei nazisti. Anche Geppetto, storia di un padre potrebbe essere visto, analogamente e provocatoriamente, come una storia pornografica nel senso di sogno proibito di tutti i poveri, gli umili e gli sfruttati, proprio come il protagonista, di vedere finalmente puniti i propri aguzzini nel modo più violento possibile. Non diremo di più, ma vi assicuriamo che il finale è davvero sorprendente perché stravolge l’immagine dimessa e gracile che avevamo del papà di Pinocchio, pur senza snaturarlo affatto. L’arco narrativo di Geppetto è imprevedibile ma anche perfettamente coerente.
C’è inoltre un elemento soprannaturale e macabro che, anche per il modo in cui è reso visivamente, rimanda al miglior Tim Burton. La scena in questione in quanto ad atmosfera e a resa grafica non ha nulla da invidiare ai film horror moderni, col plusvalore che un fumetto, per sua natura, non può ricorrere ai soliti e usurati jump-scares tipici di tante pellicole attuali.
Visivamente, Geppetto, storia di un padre è magnifico: il tratto di Dossena è tagliente, al limite dello stilizzato, e veramente efficace. Alcune scene in cui il falegname si inoltra nella foresta, con il punto di vista dall’alto, sono vertiginose e rendono l’idea dell’immersione nella wilderness. I paginoni occupati da un’unica grande vignetta – per esempio il cimitero delle marionette –, invece, sono piuttosto suggestivi e colpiscono per intensità drammatica. I colori di Segala sono profondi, scuri e dark, con tonalità che variano da tinte rossicce – tra la terra, il legno e il sangue – a tonalità fredde, adatte ai paesaggi innevati in cui si muove Geppetto per andare a recuperare i ceppi magici.
Il paesaggio, infatti, non è secondario ma diviene parte integrante della storia. Da un lato, ci sono il paesino scarno e povero in cui vive il falegname, con la sua casa disadorna dove prevalgono colori legnosi, poi il teatro di Mangiafuoco in cui, non a caso, dominano colori sanguigni. Infine, come si diceva, nella parte ambientata nella foresta innevata in cui Geppetto si procura i ceppi magici ci si accosta decisamente a paesaggi nordici. Proprio per questo, non sarebbe peregrino chiamare in causa echi di mitologia norrena – ma non solo – che si affacciano in questa originale reinterpretazione di Collodi e che si possono ravvisare, oltre che nella connotazione del paesaggio, in una concezione animica degli alberi e del legno.
Essi sono creature viventi, conservano il ricordo delle cose vissute e continuano a soffrire e provare emozioni anche dopo recisi e tramutati in forma di burattini. Da un lato, si potrebbero paragonare all’Yggdrasil delle leggende nordiche, ovvero l’albero della vita che sostiene i nove mondi di cui è composto l’universo. Dall’altro, in tantissime culture l’albero è simbolo di vita e protezione, nonché di rinnovamento e rinascita. Non dimentichiamo inoltre l’arbor philosophica della tradizione alchemica medievale per finire poi con l’albero come immagine archetipica delle fiabe e dei miti, nei quali spesso la foresta è uno spazio di perigli e ostacoli, ma anche luogo di incubazione in cui avvengono trasformazioni interiori molto importanti, metafora della regressione nell’inconscio e momento fondamentale per una rinascita dell’io. Per queste ragioni l’albero diventa anche simbolo del femminile o dell’aspetto materno della Natura, utero in cui avvengono processi trasformativi importanti. Ecco dunque che diviene un simbolo della totalità della personalità, ovvero del sé.
Tutto questo è ravvisabile nella declinazione dark del Geppetto di Fumasoli-Dossena-Segala, sia tramite una resa visiva molto evocativa del paesaggio sia attraverso una trovata narrativa bella ed efficace che riguarda la singolare radura di alberi in cui Geppetto ricava i ceppi, un luogo decisamente rilevante rispetto ai temi che abbiamo appena detto. Per ovvie ragioni non possiamo aggiungere altro.
Tornando ancora all’aspetto grafico, colpisce l’utilizzo creativo delle vignette, per esempio nella pagina in cui Geppetto costruisce un nuovo burattino per Mangiafuoco: sullo sfondo abbiamo l’enorme volto del falegname preso di profilo, affastellato però da cinque piccole vignette sparse che ci forniscono particolari del nuovo burattino mentre viene costruito. La pagina ci restituisce così in maniera dinamica la fabbricazione della marionetta proprio come una sequenza cinematografica. Del resto, non staremo certo qui a sottolineare le similitudini esistenti tra i due linguaggi, cinema e fumetto, che sono nati praticamente insieme. Da notare il naso adunco di Geppetto che richiama in parte quello allungabile di Pinocchio.
Colpiscono, infine, alcune descrizioni davvero efficaci, come ad esempio nella scena in cui Geppetto mena i colpi d’ascia sugli alberi per ricavarne gli indispensabili ceppi. Mentre la vignetta mostra l’uomo che molla i fendenti, la didascalia dice: Ci sono dei momenti in cui senti di dover restituire alla vita i colpi ricevuti. In questa breve battuta, congrua alla vicenda che descrive, è sintetizzato tutto il senso della parabola narrativa vissuta dal povero falegname.
In conclusione, Geppetto, storia di un padre rappresenta un riuscito esperimento narrativo che mescola in un unicum sorprendente e originale il gusto per la fiaba archetipica con il piacere tutto post-moderno di una storia di sopruso e vendetta tipicamente pulp con tocchi dark. Il tutto sorretto da un’architettura visiva evocativa e potente. Non ci sembra poco.
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