Nel suo discorso di fine anno, il Capo dello Stato ha fatto riferimento al concetto di senso civico, definendolo una virtù da coltivare insieme, quella del civismo, del rispetto delle esigenze degli altri, del rispetto della cosa pubblica, che argina aggressività, prepotenze, meschinità, lacerazioni delle regole della convivenza. Un cenno che non può passare inosservato. Considerando che il termine deriva dal latino civis, che vuol dire cittadino, si tratta infatti di un fondamento che riguarda la società nella sua interezza e non solo la classe politica, la quale ha comunque il dovere di fornire il buon esempio e di trasmettere valori, appunto, civili. Questa nozione sta a indicare soprattutto il rispetto delle regole, l’osservanza e la salvaguardia di principi che – si presuppone – sono condivisi da tutti.
A questo punto, logica vorrebbe che chi ci rappresenta sia dotato degli strumenti necessari a garantire una società basata sulla legalità e sulla trasparenza e che si impegni a combattere tutto ciò che ne impedisce la concretizzazione. Situazioni per le quali è necessario stabilire qual è il bene e quale il male, scegliendo da che parte stare. Nel caso specifico, il primo è rappresentato dalla giustizia, dall’onestà, dalla correttezza e dalla meritocrazia, mentre il secondo si identifica nella corruzione, nella collusione e negli affari sporchi, dunque nel crimine organizzato.
Basti pensare che, secondo le stime effettuate dall’ONG americana RAND, la corruzione ha un costo per lo Stato italiano pari a 236.8 miliardi di euro, ossia il 13% del PIL, mentre, stando al rapporto 2018 di Transparency International, siamo al 53esimo posto nella classifica relativa alla percezione della corruzione. A tal proposito, non è superfluo ricordare le parole del professore Nando Dalla Chiesa secondo cui può esistere corruzione senza mafia ma non mafia senza corruzione, a dimostrazione di come il metodo corruttivo sia uno dei principali modus operandi delle associazioni criminali, sempre più inclini a ramificarsi nei palazzi che contano. In tal senso, una legge cardine è la 190/2012, meglio nota come Legge Severino, che ha introdotto l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), ha statuito che i condannati per concussione non possano accedere a cariche politiche né a cariche nella Pubblica Amministrazione e che siano ineleggibili e incandidabili coloro che vengono condannati a due o più anni di reclusione per i reati punibili sino ad almeno quattro anni.
Rispetto ai decenni scorsi, inoltre, le associazioni mafiose cercano sempre più di relazionarsi con gli uffici pubblici, di trarre vantaggio da essi, dunque, dalle casse dello Stato, ad esempio tramite concessioni e appalti che ottengono grazie a funzionari accondiscendenti verso le esigenze criminali. Anche per questo, la riforma della giustizia voluta dal Guardasigilli Bonafede, conosciuta come Spazzacorrotti, ha irrigidito i reati contro la Pubblica Amministrazione, soprattutto per quanto concerne quelli commessi dai pubblici ufficiali, introducendo il daspo che impedisce ai condannati in via definitiva per corruzione di contrattare con la PA, anche per sempre.
Ma se da una parte sono state introdotte nell’ordinamento delle misure il cui obiettivo è quello di contrastare alcune condotte illecite e i mezzi utilizzati dalle consorterie criminali, dall’altra emerge una questione socio-politica che riguarda l’incapacità, o la mancanza di volontà, di vedere le mafie e l’illegalità come il primo problema del Bel Paese: è sufficiente ricordare che l’ultima manovra finanziaria ha avuto un costo totale di 30.2 miliardi di euro o ripensare a tutte quelle volte in cui – a proposito di sanità, di istruzione, di edilizia pubblica, di assunzioni statali e così via – ci si è nascosti dietro alla solita mancanza di fondi, quando la corruzione fa perdere allo Stato italiano i 230 miliardi e più di cui sopra e l’evasione fiscale – a cui la criminalità organizzata contribuisce notevolmente – nel 2018 è stata quantificata dal MEF in 107.5 miliardi di euro annui (le stime fanno riferimento al 2016).
Ciò nonostante, dicevamo, la questione ha anche una valenza sociale: se da una parte è auspicabile che nelle ore di educazione civica si trattino maggiormente il tema dell’antimafia e quello dell’educazione alla legalità, dall’altra è scoraggiante la scarsa attenzione che lo Stato destina, ad esempio, ai beni confiscati alla criminalità organizzata. Non solo molti di questi restano spesso inutilizzati, ma il decreto legge 113/2018, passato alle cronache come Decreto Salvini, privilegia la vendita di tali proprietà a privati, sminuendo il senso della legge 109/1996 che, in cambio, prevede che gli immobili in questione vengano riutilizzati per scopi socialmente utili. Inoltre, il Decreto Sicurezza rende tecnicamente più agevole che quanto confiscato possa tornare al mafioso tramite un prestanome.
Al netto di queste considerazioni, allora, non è difficile comprendere che affinché la classe dirigente risponda in modo concreto, i valori quali il contrasto alla criminalità organizzata e il rispetto dei principi costituzionalmente garantiti di buon andamento e imparzialità della PA presuppongono un desiderio di trasparenza e legalità che deve partire da noi cittadini, che non pretendiamo l’argomento mafia al centro delle varie competizioni elettorali – naturalmente con la presentazione di rimedi realistici – e che ci arrendiamo all’idea che la politica sia per forza un mangiatoio per cui non vale la pena sbracciarsi. Eppure, non c’è nulla di più sbagliato. Ha ragione Mattarella, dunque, dobbiamo recuperare il nostro senso civico. Facendo ognuno la propria parte.