Ricordati che colui che tira i fili è questo Essere celato in noi, è Lui che suscita la nostra parola, la vita nostra, è lui l’Uomo… cosa ben più divina delle passioni che ci rendono simili a marionette e nient’altro (Marco Aurelio). Cos’è la marionetta, se non la metafora dell’uomo preda delle passioni dalle quali si lascia guidare, proprio come un burattino in balia dei fili? Alle soglie del 2020 auspichiamo che Pinocchio non sia più considerato soltanto una favola che ricorda ai bambini di ubbidire ai genitori e non dire le bugie.
Come ci mostra Elémire Zolla* in un suo breve e illuminante saggio sulla creatura di Collodi, la storia del burattino parlante è in realtà un grande racconto iniziatico che, con un linguaggio semplice e comprensibile ai fanciulli, li avvicina al mondo archetipale e quindi alla matrice invisibile di tutte le storie, al nucleo primigenio di verità imprescindibili e ancestrali che si nascondono al fondo di opere come Le mille e una notte, La Divina Commedia o L’Orlando Furioso, racconti allegorici e fiabe che giocano al tempo stesso sia con il sublime che con il grottesco per raccontare in realtà ben altro sulla natura dell’uomo e sul viaggio interiore che questi è chiamato a compiere nel corso della vita.
Ma andiamo ancora più indietro, perché la favola di Collodi affonda le radici in quello che è stato il racconto iniziatico per eccellenza, cioè Le metamorfosi di Apuleio – scritto nel secondo secolo dopo Cristo –, opera che ai più potrebbe non dire molto, ma che se chiamiamo L’asino d’oro, titolo con la quale era nota, allora accenderà qualche lampadina nella testa di chi conosce le disavventure del burattino più famoso del mondo. Lucio, il protagonista del romanzo di Apuleio, nel corso di numerose peripezie a sfondo magico che, per brevità, non racconteremo, si ritroverà infatti trasformato in un asino e, in tale forma, ne subirà di tutti i colori. Questo finché una notte non sognerà la dea egiziana Iside, il cui culto era ancora molto presente nell’impero romano dei primi secoli dopo Cristo e che, successivamente, fu trasfigurato nel culto della Madonna cristiana. La dea suggerirà al protagonista, ancora in forma d’asino, di intervenire alla processione in Suo onore, durante la quale gli officianti si travestivano da animali, munito di una rosa. Così facendo ella lo riconosce e lo restituisce magicamente alla forma umana.
La dea è il simbolo per eccellenza dell’eterno femminino nonché della matrice cosmica da cui sarebbe scaturito l’universo, la sostanza a cui sarebbe stata data una forma. Una divinità salvifica che avrebbe ricomposto i pezzi di Osiride, sparpagliati dal malvagio fratello Seth, riportandolo a nuova vita, quindi simbolo di trasformazione e rinascita, e che veniva venerata tramite processioni durante le quali, come si è detto, gli officianti si travestivano da animali: forse asini, scimmie, uccelli, magari anche grilli e lumache. Perché no? In quali animali si mascherassero nel corso dei misteri isiaci non lo sappiamo per certo, ma tutto questo non ricorda forse qualcosa? Trasformazioni in asini che simboleggiano il prevalere della natura animale; trasformazioni da burattino, fase in cui la coscienza è meccanicamente preda delle proprie passioni, in essere umano completo emancipatosi da tale giogo.
Tali metamorfosi, nei misteri isiaci, così come in tutte le religioni misteriche dell’antichità, avvenivano tramite la relegazione degli adepti in anfratti oscuri, caverne – come, per esempio, potrebbe essere il ventre di un pescecane –, nei quali l’iniziato viveva esperienze liminali ed entrava dunque in contatto con il concetto di morte, ma anche con la consapevolezza che la coscienza non era dipendente dal supporto organico in cui risiedeva, ma poteva affrancarsene così come l’uomo/burattino può smarcarsi dal giogo dei fili/passioni terrene che lo tengono legato alla mera materia. Si usciva così rinati e trasformati da questi processi che venivano maieuticamente propiziati dalla divinità simbolo dell’eterno femminino che opera trasmutazioni sulla coscienza e sul maschile in particolare.
Dunque, la dea appare in sogno, mette in comunicazione con i morti e opera trasformazioni salvifiche: c’è bisogno di altro per fare paragoni con la fata turchina? Simbolo anch’essa di un femminile eterno e salvifico – come la Beatrice di Dante e la Laura di Petrarca – che affranca Pinocchio sia dalla sua natura animale, l’asino, sia da quella puramente meccanica, il burattino. Per questo, dunque, può mostrarsi al protagonista sia come una bambina che in forma adulta – elemento riprodotto fedelmente nel film di Garrone: la dea non ha età e spesso assume molteplici forme. Certo, si dirà che nella favola di Collodi ella è paragonabile a un’apparizione fantasmatica, forse spettro di una dama defunta che svolge funzione materna nei confronti di Pinocchio. Troviamo però che le due interpretazioni non si escludano ma, anzi, si completino a vicenda.
Quindi, la domanda da porsi dopo questa disanima dell’opera di Collodi è: come si pone il film di Garrone rispetto a tutto ciò? Ebbene, il modo in cui il regista è rimasto fedele al testo – pur asciugandolo per esigenze di traduzione/trasmutazione dal linguaggio letterario a quello filmico –, nonché gli evocativi ed efficaci mezzi visivi che ha messo in atto per operare tale trasmutazione, non fanno altro che squadernare efficacemente gli archetipi che riverberavano dalla celebre opera. Nascondendosi come autore, dietro la fedeltà quasi illustrativa alle pagine del Pinocchio, egli ne sprigiona tutta la potenza evocativa. Anzi si può dire che Garrone, mimetizzandosi all’interno della fiaba, mette in atto uno degli archetipi maggiori, ovvero quello del travestimento nella più modesta tra le forme.
Intendiamoci, non che la pellicola sia modesta, tutt’altro. Possiamo, però, sicuramente affermare che così come certe verità profonde venivano dissimulate nelle fiabe e nei racconti apparentemente più semplici, spesso nati per i fanciulli, così il cineasta ha dissimulato se stesso e la propria poetica nella trasposizione puntuale di una fiaba che all’apparenza è molto semplice, ma veicola profonde verità che ci parlano di ciò che è ineffabile, inconoscibile e dunque non dicibile. L’operato filmico di Garrone, dunque, avvicina in maniera inconscia lo spettatore a quel mondo archetipale di cui fiutiamo la sfuggevole esistenza nelle piccole epifanie sincroniche che a volte costellano perfino le nostre vite quotidiane. Un mondo, quello degli archetipi eterni, che per Platone erano gli eidolon, per altri le idee di Dio o comunque le idee ancestrali sulle quali il mondo è stato plasmato e per Jung, invece, strutture informali della psiche, riempibili con i contenuti più disparati che esistono da sempre, a prescindere dall’uomo, la cui origine si perde dunque nel mistero e nell’ineffabile.
Garrone ci avvicina a tutto ciò – come già aveva fatto nel Racconto dei racconti (2015) – gestendo in perfetto equilibrio il registro sublime e quello grottesco, proprio perché è tramite quest’ultimo che spesso, paradossalmente, si esprime il mondo archetipale. Non è un caso che, per la sceneggiatura, il regista abbia trovato un sodale proprio in quel Massimo Ceccherini – inviso ormai allo star-system comico italiano –, portatore di una sgradevolezza programmatica e sovversiva che si traduce per esempio in un’accentuazione dei tratti animaleschi della volpe di cui l’attore e sceneggiatore è anche interprete. E non è un caso che Garrone abbia insistito felicemente per avere un doppio Premio Oscar come Mark Coulier – artefice, tra le altre cose, dei trucchi prostetici di molti Harry Potter –, per trasfigurare efficacemente gli attori in forme animalesche antropomorfizzate affinché calassero lo spettatore in un mondo più vicino possibile all’allegoria e al paradossale, registro in cui si celano gli archetipi. Incredibile, poi, il lavoro fatto sul piccolo Federico Ielapi, interprete di Pinocchio, la cui pelle legnosa rende perfettamente l’idea impossibile di un burattino vivente.
Anche il lavoro sulle scenografie, nonché sulla ricerca di location suggestive – a cui ci eravamo già abituati con i fantastici paesaggi del Racconto dei racconti – a opera di Dimitri Capuani, viaggia in questa direzione. L’ambientazione in antichi e sperduti borghi della Toscana e della Puglia ha aiutato molto a dissimulare ulteriormente l’invisibile trama che giace sotto la favola di Pinocchio. Lo stesso palazzo di giustizia in cui viene portato il burattino dai carabinieri esternamente è una sorta di rudere vetusto, un’antica torre che non sfigurerebbe in qualunque film fantasy attuale. L’interno, nel quale il giudice è una scimmia e i carabinieri sono dei cani, è invece un antro oscuro e fumoso nel quale la giustizia funziona a rovescio: l’innocente va in galera mentre il colpevole è assolto. Un paradosso, ripreso dalla favola, che purtroppo trova spesso corrispondenze nel reale e che introduce i bambini in un mondo in cui i valori sono rovesciati e niente è sempre ciò che sembra ma, del resto, se si vuole far saltar fuori la verità, ecco che occorre far diventare la luna il sole e viceversa. Ovvero, occorre la trasfigurazione, la maschera o, semplicemente, la bugia per disvelare la realtà. Bugia che, come si sa, nel caso di Pinocchio provoca vere e proprie trasformazioni fisiche – il naso che si allunga – prodromo di ben altre trasformazioni che subirà il povero burattino.
La fotografia di Nicolaj Brüel esalta in particolar modo i colori terrigni dei paesaggi nonché la componente materica del legno del protagonista o delle case vetuste e in decadenza, come quella della stessa fata turchina. Così pure gli interni chiaroscurati, per esempio quelli dell’antro del pescecane, delle bettole o del già citato tribunale, donano al film un’atmosfera decisamente congrua al discorso portato avanti dalla pellicola. L’efficace montaggio “invisibile” del pluripremiato Marco Spoletini – David di Donatello nel 2009 per Gomorra e nel 2019 per Dogman –, collaboratore storico del cineasta romano, si trasfigura anch’esso e diventa strumento al servizio di un’opera che riesce a veicolare visivamente ciò che difficilmente può esser detto in parole. Infine, la scelta di Roberto Benigni nel ruolo di Geppetto non poteva essere più giusta perché il regista e interprete toscano riesce a infondere quell’umanità e quell’istinto paterno che già fuoriuscivano naturalmente dalle pagine di Collodi e che trovano in lui la perfetta sintesi attoriale.
In realtà, tutto il lavoro di casting si è rivelato perfetto, con facce e attori giusti in ogni ruolo: dal caratterista Davide Marotta nei panni del Grillo Parlante all’esterrefatto Mastro Ciliegia di Paolo Graziosi; dal sornione Rocco Papaleo nel ruolo del Gatto alla già citata Volpe di Ceccherini; da Massimiliano Gallo nel doppio ruolo del Corvo – in cui è irriconoscibile – e del direttore del circo a Nino Sardina, inquietante omino di burro del paese dei balocchi. C’è perfino Marcello Fonte – vincitore di tutti i premi possibili l’anno scorso con Dogman – celato nei panni di un pappagallo. Va detto però che l’apparizione di Gigi Proietti nel ruolo di Mangiafuoco è fin troppo veloce, come del resto lo è la trattazione dell’intero episodio del teatro dei burattini. L’attore romano, pur efficacissimo in un ruolo sopra le righe, viene dunque sotto-utilizzato.
In conclusione, la favola di Collodi trova in Garrone un tramite perfetto per avvicinare noi spettatori/fanciulli a un mondo misterioso e ancestrale che sotterraneamente attraversa un po’ tutta la filmografia di questo grande autore che si muove tra la trasfigurazione del reale in fiabe nere –L’imbalsamatore (2002), Reality (2012), Dogman (2018) ma anche Gomorra (2008) in un certo senso – e la trasposizione diretta di fiabe e racconti – il già citato Racconto dei racconti (2015) e, ovviamente, Pinocchio – che ci mettono in diretto contatto con l’anima del mondo, spesso celata nelle apparenze più semplici e insospettabili.
*Fondamentale riferimento per questo articolo è stato il saggio Carlo Collodi contenuto nella raccolta Uscite dal mondo di Elémire Zolla, edito da Adelphi (1992-2005) e da Marsilio (2012).