Diciamolo subito: siamo lacerati. Da un lato, c’è l’emozione per la conclusione di un ciclo cominciato 42 anni fa e per l’addio a dei personaggi che, per chi come il sottoscritto è stato accompagnato per tutta la vita da questa saga, fanno parte integrante del proprio orizzonte emotivo e immaginale; dall’altro, c’è la consapevolezza che questa è la chiusura ideale di una nuova trilogia cominciata 4 anni fa col piede sbagliato e che, dopo il decisamente più interessante secondo film – Episodio VIII Gli ultimi Jedi del 2017 –, avrebbe potuto prendere direzioni affascinanti ed eretiche ma, per paura, ha scelto di non farlo richiamando J. J. Abrams, autore di Episodio VII, a tirare le redini. Certo, alcune cose funzionano bene per il modo in cui sono state chiuse, le emozioni non mancano e questo è fondamentale in un film di Star Wars ma, in una tale quadratura del cerchio, ci sono forzature repentine ed elementi fin troppo telefonati.
Ripercorriamo brevemente ciò che è successo, non nella narrazione finzionale, ma in quella produttiva recente, che è altrettanto appassionante. Nel 2012 George Lucas, forse amareggiato per le molte reazioni negative alla trilogia dei prequel (1999 – 2005), vendette la Lucasfilm alla Disney per la ragguardevole cifra di 4.05 miliardi di dollari e così le redini della galassia lontana lontana furono affidate alla produttrice Kathleen Kennedy, sodale di Spielberg per anni. Venne dunque varata una nuova trilogia, la cui regia e sceneggiatura furono messe nella mani di J. J. Abrams, specializzato in operazioni nostalgia come il riuscito reboot di Star Trek (2009 e 2013). Decisamente meno riuscito, invece, Super 8 (2011), il suo progetto più personale, sempre molto derivativo. Prima ancora c’erano stati un Mission Impossible 3 (2006) piuttosto dimenticabile e, soprattutto, il fenomeno televisivo Lost (2004-2010), col quale gli si erano aperte le porte dell’olimpo produttivo hollywoodiano. Ad affiancarlo nella scrittura fu chiamato Lawrence Kasdan, autore dello script de L’impero colpisce ancora (1980), il miglior episodio dell’intera saga, per garantire una certa continuità.
Con Episodio VII – Il risveglio della forza nel 2015 Abrams riaprì il cassetto dei ricordi dei fan rovesciandolo in maniera confusa su un tappeto filmico fin troppo ossequioso. Fu dunque un’opera, girata volutamente in pellicola per ingraziarsi furbescamente coloro che non avevano amato la virata in digitale dei prequel, che non osò andare oltre la riproposizione di schemi narrativi e situazioni già viste della primissima trilogia. Un film che si inchinò supinamente al passato senza osare dire qualcosa di nuovo. Lo stesso Lucas, il quale aveva pur tentato di fare qualcosa di inedito con i tanto odiati prequel, non gradì. Forse anche perché nessuno aveva seguito i suoi suggerimenti ma, del resto, non erano più tenuti a farlo.
Nel 2017 ci aveva provato Rian Johnson a portare questa nuova trilogia in direzioni inaspettate che, anche se non gradite al popolo dei fan, erano quanto meno coraggiose. Tra le innovazioni più eclatanti, per la prima volta la Forza – il famoso campo di energia mistica che mantiene coese tutte le cose dell’universo e che viene percepito e utilizzato solo dai cavalieri Jedi – non era più solo appannaggio dell’ordine Jedi ma diventava un mondo accessibile per chiunque volesse cimentarsi in un percorso di apprendistato. E, infatti, si scopriva che Rey, la giovane protagonista che apprendeva di avere quei poteri, non apparteneva ad alcun lignaggio importante, dunque non era erede designata di poteri che passavano attraverso il sangue di famiglia. Insomma una democratizzazione del concetto di Forza che, se sviluppato, avrebbe potuto portare verso direzioni molto interessanti. Tuttavia, il popolo dei fan duri e puri non apprezzò e così, dopo che la regia di Episodio IX era stata affidata in un primo momento a Colin Trevorrow che avrebbe dovuto seguire l’indirizzo dell’eretico Rian Johnson, la pavida Disney, nella persona di Kathleen Kennedy, preferì correre ai ripari e richiamare alle armi Abrams per rimettere le cose a posto. Esattamente ciò che ha fatto.
In quest’ultimo episodio scopriremo il vero lignaggio di Rey – di cui non diremo per ovvie ragioni –, tramite una forzatura decisamente stiracchiata che contraddice in modo maldestro ciò che era stato affermato precedentemente. È qui che si avverte la totale mancanza di programmaticità di una trilogia che è nata per accontentare i fan e che è proseguita inseguendone gli umori altalenanti senza trovare un’identità ben precisa. Una trilogia frutto di due anime in contrasto (Abrams e Johnson) e figlia di una volontà produttiva (Kennedy) che ha avuto paura di osare fino in fondo.
Non manca una frecciatina dichiarata proprio a Johnson nel momento in cui, nel film, si afferma che un’arma Jedi non vada mai buttata via. Gli appassionati ricorderanno che all’inizio di Episodio VIII, l’anziano Luke Skywalker gettava via la sua vecchia e gloriosa spada laser riavuta da Rey con un gesto di totale noncuranza. Gesto che fece ovviamente gridare allo scandalo i soliti fondamentalisti. Ecco che anche su questo aspetto Abrams riporta l’ordine – non diremo come – e si prende il gusto di fare la linguaccia metaforica al suo collega.
Il ripescaggio dell’imperatore Palpatine – non è uno spoiler perché si sapeva già dai trailer –, il malvagio burattinaio dell’intera esalogia precedente, risulta paradossalmente la carta vincente del nono appuntamento. Dopo la frettolosa eliminazione del leader Snoke a metà Episodio VIII, veniva certamente a mancare un villain degno di questo nome, considerato che Kylo Ren, pur avendo ucciso il padre Han Solo in Episodio VII, era comunque lacerato e roso da dubbi, come si evinceva nel corso de Gli ultimi Jedi. Il recupero di un cattivo iconico come Darth Sidious – ovvero l’ex senatore Palpatine, rivelatosi maestro dei malvagi Sith nella trilogia prequel –, dunque, dona potenza e spessore alla vicenda. La sua risata agghiacciante risuonava minacciosa già nei trailer e nel film lo troviamo in una versione decisamente orrenda e oscura, sicuramente più efficace delle eccessive grinzosità che lo rendevano un po’ finto nell’aspetto in Episodio III.
Qui Palpatine è un’inquietante presenza che ha la statura di un vero e proprio negromante, un mago nero tornato dalla morte grazie a un miscuglio di magia occulta e scienza, scaturito fuori dai recessi più bui del miglior genere fantasy, in primis Il Signore degli anelli. In questa pellicola il personaggio assume così le caratteristiche e lo spessore di un Saruman, il mago bianco traditore passato nelle fila dell’oscurità nei libri di Tolkien, e di un Sauron, espressione del Male assoluto e burattinaio manipolatore, messi assieme. Ecco che la vocazione marcatamente fantasy della vecchia trilogia torna in modo prepotente. Non è un caso che con Star Wars fu utilizzato il termine Science Fantasy, ben diverso da Science Fiction con cui si indica genericamente la fantascienza. Ciò che ha sempre distinto l’epopea di Lucas e che viene in parte recuperato – anche efficacemente – in L’ascesa di Skywalker, è un riuscito e difficilmente ripetibile miscuglio di mito e tecnologia, di elementi archetipici caratteristici del registro fiabesco/mitologico con elementi da moderna space/opera in cui però le trovate tecnologiche e il design delle astronavi è sempre secondario rispetto all’aspetto mistico e leggendario.
Abrams è riuscito, almeno in parte con questo Episodio IX, a ritrovare quella particolare alchimia di sapori che rendeva unica la vecchia trilogia e che era stata eccessivamente diluita nei prequel. Anche il recupero della saga familiare che viene drammaticamente rimescolata in modi su cui dobbiamo tacere in questa sede contribuisce al riproporre in parte quell’epicità che aveva contrassegnato le origini. Conflitti tra padri e figli, agnizioni e scontri edipici laceranti, che avevano donato all’opera di Lucas quel sapore di tragedia greca dallo spessore psicologico importante, vengono qui sapientemente recuperati in un rimpasto che ha dunque una sua ragione di essere. Il conflitto dell’eroe con la propria Ombra – concetto su cui ci siamo già soffermati nella nostra rubrica – viene ulteriormente ripreso e, se non ampliato e approfondito, perlomeno reso visivamente in modo efficace, nonché semplificato a favore di una narrazione comunque avvincente.
L’impianto visivo del film, manco a dirlo, è semplicemente sontuoso – consigliamo, se possibile, la visione in una sala iMax –, con colori spesso virati in tinte dark affascinanti e scenografie che, in alcune scene sotterranee, ricordano non poco la grandiosità del già citato Signore degli anelli. Saggiamente si è scelto di non esagerare con il numero di nuovi pianeti da mostrare allo spettatore e così se ne vedono di meno, però con un impatto visivo davvero notevole. Il mare in tempesta della luna di Endor con i resti affondati della vecchia Morte Nera, già intravisto nei trailer, è la scenografia perfetta per scontri epici e svelamenti più o meno inattesi. Anche l’introduzione di nuove creaturine è gradevole ma non prende il sopravvento. La sensazione di ritrovarsi in un mondo che in parte già conosciamo ma che d’altro canto riserva ancora grandi sorprese, sia dal punto di vista visivo che connotativo, c’è tutta.
Al netto di ogni considerazione, va rilevata però la grossa forzatura con cui si è dovuta trovare una decente uscita di scena per la principessa Leia. Come sappiamo, morta Carrie Fisher nel 2016, è venuta a mancare l’interprete di un personaggio fondamentale che, nella nuova trilogia, si ritrova ancora alla guida della resistenza, anche se non più impegnata in pericolose missioni. Scegliendo eticamente di non voler riesumare l’attrice con artifici digitali, si è quindi dovuto ripiegare su alcune sequenze scartate dai film precedenti per cercare di dare un senso alla sua scomparsa. In questo modo la forzatura è purtroppo obbligatoria e l’artificiosità narrativa dell’operazione purtroppo si avverte forte.
Infine, molti colpi di scena sono tutt’altro che imprevedibili ma si intuisce che non era a essi che puntava Abrams con Episodio IX. Evidentemente voleva – e in questo ci è in parte riuscito – dare una degna conclusione a una saga familiare avviata nel 1977 e chiudere gli archi narrativi dei nuovi personaggi introdotti nel 2015. I nodi vengono dunque al pettine e il cerchio si chiude in modo equilibrato e soddisfacente, in relazione a quanto fatto con Episodio VII.
Le vicende degli Skywalker sembrerebbero aver trovato un senso e una chiusa se non altro congrui e le traversie dei nuovi personaggi a cui è stato passato il testimone si inseriscono così in modo organico all’interno del canone starwarsiano. Senza però intuizioni geniali di sorta o grosse innovazioni che sono state invece messe da parte dopo l’interessante esperimento de Gli ultimi Jedi. L’universo di George Lucas palpita ancora in opere collaterali, come nel riuscitissimo spin-off Rogue One, uscito nei cinema nel 2016, oppure nella serie televisiva The mandalorian che sta spopolando negli ultimi mesi, godibilissima quanto appropriata reinterpretazione western di un personaggio ispirato al mitico cacciatore di taglie Boba Fett, che ha pompato freschezza e linfa vitale nella galassia lontana che tanto amiamo.
In conclusione, Episodio IX è il re-indirizzamento, in parte riuscito, in parte no, con altrettanti meriti e difetti, di una nuova trilogia che si è posta sia come rilancio eccessivamente nostalgico di un franchise, ma anche come ponte verso un nuovo mondo narrativo che però fatichiamo ancora a intravedere perché i tentativi fatti in tal senso sono stati vanificati per pavidità e quindi si è rimasti intrappolati in un passato glorioso ma troppo ingombrante. Rimangono l’emozione di vedere il crepuscolo di tanti personaggi a cui siamo più che affezionati e quel brivido, sempre insopprimibile, che cresce sottopelle nel momento in cui si spengono le luci in sala, appare la geniale e proverbiale didascalia Tanto tempo fa in una galassia lontana lontana… Poi parte la musica e le scritte gialle che tanto amiamo volano via tra le stelle come astronavi. Ecco, quel brivido nessuno potrà mai togliercelo.