Il silenzio, nel suo tacito e omertoso assenso, rappresenta lo strumento più influente del potere illecito e l’arma più pericolosa dei nostri tempi. Esso è fatto di accettazione, rassegnazione e di irrimediabile collusione che contribuisce al crollo nell’oblio delle verità sconvenienti. Il rumore, dunque, ne è il più efficace rimedio. È solo parlando, infatti, che si risvegliano le coscienze, che si sollevano i veli, ed è proprio un gran rumore quello che è iniziato nell’ottobre 2017 con l’avvio del movimento #MeToo. Diventato virale nel giro di ventiquattro ore, il movimento è ancora fortemente attivo in tutto il mondo per dimostrare l’irrimediabile presenza di violenze e molestie sul posto di lavoro, per lo più a danno delle donne.
Lanciato nel 2006 ma divenuto virale nel 2017, #MeToo non è solo un motto o un hashtag, ma l’incisiva reazione del mondo in seguito allo scandalo sessuale che ha avuto maggiore risonanza negli ultimi anni: il caso Weinstein, che ha travolto il famoso produttore cinematografico statunitense. Gli abusi di cui Harvey Weinstein è stato accusato, i 12 stupri e le oltre 80 molestie sessuali non si sono fermati però alla seppur gravissima e dilagante convinzione, da parte degli uomini, di poter disporre a proprio piacimento dei corpi delle donne, viste come esseri umani inferiori e sotto il proprio controllo. L’abuso è stato anche di potere, di posizione, da parte di un individuo tanto influente da fare il bello e il cattivo tempo sulla carriera di decine di attrici che hanno rischiato la rovina mediatica come vendetta per un rifiuto. In seguito alle accuse delle prime 13 presunte vittime, altre 80 donne nel corso degli ultimi anni hanno denunciato le molestie del produttore, irrimediabilmente bandito dal mondo del cinema. E in seguito al grande scalpore che la vicenda ha avuto, molte vittime di altri uomini potenti si sono sentite incoraggiate a denunciare i propri aggressori.
Eppure, anche se tanto rumore è stato fatto, anche se le coscienze sono state smosse e la macchina della giustizia si è messa finalmente in moto, sembra che questa triste storia, almeno dal punto di vista civile, sia destinata a finire nel silenzio. Pochi giorni fa, infatti, il processo civile contro Harvey Weinstein si è concluso con un patteggiamento. Un patteggiamento che prevede un risarcimento di 6 milioni di dollari alle accusatrici e 19 milioni da devolvere a un fondo che si occuperà della class action delle presunte vittime. Neanche un centesimo di quei 25 milioni, però, sarà versato dal produttore perché sarà l’agenzia di assicurazione della Weinstein Company a pagare. E l’aspetto dell’accordo che ha suscitato maggiori indignazioni riguarda proprio il silenzio: né Weinstein né alcun membro della compagnia dovrà ammettere alcuna colpa.
È vero che il procedimento giudiziario non è ancora terminato e, anzi, il processo penale inizierà il prossimo 6 gennaio a New York. Ed è vero che il patteggiamento civile non avrà ripercussioni su di esso. Eppure, un’orribile storia di abusi, di abuso di corpi, di potere e di controllo, che è nata ed è cresciuta grazie al silenzio di vittime e alla tacita complicità dei testimoni, continua a vivere di silenzio. Quando la vicenda è scoppiata e le prime donne hanno iniziato a dichiararsi vittime, molte altre persone, in tutto il mondo, si sono fatte coraggio e hanno denunciato i propri aggressori. E se fino a quel momento non l’avevano fatto, era stato perché loro, le vittime, si erano vergognate delle violenze subite o avevano lasciato che qualcuno comprasse il loro silenzio. Più del caso stesso, dunque, ha cominciato a suscitare scalpore il fatto che le vittime uscissero allo scoperto tutte insieme, magari dopo anni, e il sospetto di un pubblico vantaggio ha iniziato a circolare tra pubblico e media. Ma se un silenzio tanto a lungo perpetrato ha scatenato la diffidenza, se il silenzio stesso si è dimostrato il più grande complice dello spietato aggressore, un accordo che non prevede ammissione di colpevolezza non sarà differente.
La prima indignata reazione da parte del mondo dello spettacolo è giunta da Emily Ratajkowski durante la premier del film Uncut Gems. L’attrice ha sfilato sul red carpet con un chiaro segno del suo dissenso: un insulto disegnato sul suo braccio, un inequivocabile Fuck Harvey. Il suo gesto, in realtà, racchiude molti più significati di quel che ci si aspetta. La Ratajkowski, infatti, è sempre stata criticata per il suo femminismo che appare fortemente in contrasto con un mestiere che sfrutta, più di qualunque altra cosa, la sua immagine. Ma la modella, che fa del corpo uno strumento e un lavoro, usandolo per veicolare significati, ha dimostrato il suo dissenso nei confronti di un uomo per il quale le donne sono solo carne da macello di cui approfittare e da cui trarre il massimo profitto, e lo ha fatto proprio attraverso il corpo, il suo mezzo di comunicazione, attraverso un segno sulla pelle, un segno che, purtroppo, non sarà mai indelebile quanto le cicatrici incise sulle anime delle vittime.
Quella che ha investito Weinstein, la sua compagnia, il mondo dello spettacolo e numerosi altri uomini dello show business mondiale è una condanna sociale, fatta di sdegno e indignazione. Ma le conseguenze, per ora, non sono state adeguate. Non solo il caso di portata mondiale non ha scoraggiato la tendenza ad abusare, molestare e violentare le donne, neanche le ripercussioni legali e civili per gli accusati di atti tanto vili si sono lontanamente rivelate appropriate. In attesa del processo penale, dunque, è importante ricordare che non si può contare solo sull’indignazione o sul risentimento sociale, che non bastano i risarcimenti e il processo mediatico per ottenere giustizia. Serve che il silenzio smetta di esistere, che i segreti escano dall’oblio e che la verità, ufficiale e legale, consenta ai colpevoli di ammettere le proprie colpe.