Quattro ragazzini, più un fratello maggiore, scoprono nella soffitta di casa la mappa di un tesoro dei pirati e decidono di andare a cercarlo. Questa la semplicissima e irresistibile idea che ebbe Spielberg trentacinque anni fa e che fu portata sullo schermo dalla mano sicura di Richard Donner, regista di successi come Il presagio (1976) e Superman (1978) e futuro realizzatore della saga di Arma letale. Il cineasta, inoltre, aveva appena finito di girare Ladyhawke che sarebbe uscito di lì a poco nelle sale. Annus mirabilis per Donner, quindi, che nella stessa annata, 1985, piazzò una doppietta con due film che avrebbero segnato per sempre l’immaginario degli anni Ottanta.
L’anno precedente era uscito il secondo Indiana Jones (e il tempio maledetto) e gli adolescenti che avevano amato l’intrepido archeologo erano ancora affamati di avventura per cui, quando arrivò nelle sale questo film dallo strano e intraducibile titolo, corsero in massa a guardarlo – compreso il sottoscritto –, anche perché all’epoca bastava leggere sul cartellone la dicitura Steven Spielberg presenta e sapevi che non potevi perderlo: quel nome era una garanzia. Cosa c’era di più irresistibile di un gruppo di ragazzini – con cui era facile identificarsi – impegnati in una pericolosa avventura in cerca di un tesoro dei pirati, inseguiti da una banda di improbabili ed esilaranti banditi tra tunnel sotterranei e tracobetti da superare – si dice trabocchetti! E io che ho detto?.
Era l’epoca del ragazzo d’oro di Hollywood: lo Spielberg de Lo squalo (1975), Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), I predatori dell’arca perduta (1981), ed ET (1982) aveva affiancato alla sua carriera di regista quella di produttore, sfornando così altrettanti titoli che avrebbero forgiato l’immaginario di una generazione con film come Poltergeist nel 1982, Gremlins nel 1984 e, soprattutto, nel 1985 I Goonies, nonché una robetta come Ritorno al futuro.
Il cineasta di Cincinnati è stato da sempre interprete perfetto della sensibilità dei più piccoli e della loro esigenza di sognare e, infatti, il soggetto dei Goonies, sceneggiato poi da Chris Columbus – futuro regista di Mamma ho perso l’aereo (1990) e dei primi due Harry Potter (2001 e 2002) – rispondeva perfettamente a quel bisogno intrinseco di ascoltare storie che in questo caso non riguardavano un archeologo adulto appartenente a un’epoca passata – dicasi Indiana Jones –, bensì un gruppo di ragazzini sfigati, la cui vita quotidiana veniva sconvolta da eventi straordinari.
Non abbiamo usato a caso la parola sfigati perché il termine Goony, nello slang americano, vuol dire appunto sfigato, oltre che essere un gioco di parole che riprende il nome Goon-docks, il quartiere portuale della piccola cittadina di Astoria dove vivono i giovani protagonisti del film. L’idea di un gruppo di emarginati, evidentemente impopolari a scuola, che trovano nella loro amicizia una risorsa non comune per superare incredibili avversità ritorna prepotentemente in un libro che sarebbe uscito l’anno dopo, 1986, e cioè It di Stephen King. Con questo non affermiamo di certo che il Re del Brivido abbia preso spunto dai Goonies perché la gestazione del romanzo-fiume sul club dei Perdenti di Derry ebbe una lunghissima gestazione, senza contare che già nella novella Il corpo, del 1982, erano presenti altri quattro adolescenti sfigati che sarebbero poi stati portati sullo schermo nel 1986 dal regista Rob Reiner con Stand by me, adattamento cinematografico tra i più riusciti di Stephen King. Tra i protagonisti della pellicola di Reiner ritroviamo tra l’altro Corey Feldman, giovanissimo attore, già presente in Gremlins (1984), lanciato proprio da I Goonies in cui interpretava l’impertinente e sboccato Mouth. Il cerchio dunque si chiude.
Le atmosfere di una certa provincia americana, già individuata nelle cittadine con le villette a schiera di ET, ripresa dal quartiere di casette prefabbricate di Questa Verde in Poltergeist, oppure nella innevata Kingston Falls di Gremlins, trova una sua declinazione marittima nella Astoria de I Goonies. La provincia delle produzioni di Spielberg non era, però, solo un anonimo sfondo per storie ambientate tra un ceto medio-borghese. Piuttosto, diventò un luogo dell’anima per tantissimi adolescenti cresciuti con le storie di quei ragazzini che con le loro biciclette affrontavano pericoli impensabili e soprattutto rinsaldavano amicizie grazie alle quali poter affrontare il vivere moderno.
Inoltre, l’idea che dietro casa potesse atterrare un alieno dalle fattezze elfiche o che la propria abitazione fosse costruita su un antico cimitero indiano oppure, ancora, che nella soffitta dei genitori si celasse una mappa del tesoro, rendeva possibile per tutti noi che siamo stati piccoli in quegli anni l’idea che il meraviglioso potesse nascondersi dietro l’angolo. La sensazione che, varcato il cancello di casa, a un passo di distanza, si nascondessero mille pericoli ma anche mirabolanti avventure da condividere con i propri amici era esaltante. Fu questa sensazione di freschezza, questo particolare sentire che caratterizzò quella manciata di pellicole che definì per sempre l’orizzonte immaginativo di una generazione. In un’epoca in cui lo sfaldarsi delle famiglie era divenuto ormai molto diffuso e i punti di riferimento per i figli di separati/divorziati (come lo stesso Spielberg da ragazzo) venivano a mancare, molti giovani trovarono in queste storie delle catarsi ottimistiche, un conforto alla solitudine emotiva o, semplicemente, qualcuno con cui identificarsi e vivere delle avventure incredibili.
Fu in questa fucina immaginativa, nonché in questo particolare momento storico che nacque l’idea de I Goonies, una storia che intercettò alla perfezione i sentimenti e le atmosfere che erano nell’aria. Trovare i quattro protagonisti non fu facile ma alla fine il casting risultò praticamente perfetto: Sean Astin – futuro Samvise Gamgee nel Signore degli anelli – era Mickey Walsh, il leader sognatore del gruppo; il paffuto Jeff Cohen era il petulante e irresistibile pasticcione Chunk; Jonathan Ke Quan – già spalla di Indiana Jones nel Tempio maledetto – era Data, il piccolo inventore delle diavolerie alla 007 di cui voleva essere emulo. Infine, il già citato Corey Feldman era il pragmatico Mouth, dalla battuta sempre pronta. Si aggiungevano il fratello maggiore di Mickey, Brandon – sì, esatto, si chiamava Brandon Walsh, ma nessuna connessione con il futuro personaggio di Beverly Hills 90210 –, interpretato da un giovanissimo e ancora imberbe Josh Brolin, futuro Thanos nemesi degli Avengers, nonché interprete di tante importantissime pellicole degli anni 2000 tra cui la tripletta del 2007 Non è un paese per vecchi dei Coen, American gangster di Ridley Scott e Nella valle di Elah di Paul Haggis.
Inoltre, nella schiera dei cattivi, ovvero l’italianissima, improbabile e matriarcale banda Fratelli, troviamo Joe Pantoliano, futuro villain del primo Matrix (1999), nonché l’indimenticabile Anne Ramsay, terribile mamma-gangster che richiama in forma parodica la Kate Ma’ Barker de Il clan dei Barker (1970) di Roger Corman e che ritroveremo in un ruolo analogo, sempre sopra le righe, nell’esilarante Getta la mamma dal treno (1987). Come non ricordare, poi, il gigantesco John Matuszak – ex giocatore di football – nascosto sotto chili di trucco prostetico nei panni del deforme e dolcissimo Sloth, tenuto sotto chiave dalla sua stessa perfida famiglia – sempre la banda Fratelli – e liberato dal pacioccone Chunk col quale sviluppò una splendida amicizia.
Il regista Richard Donner, appena uscito dalle riprese di Ladyhawke, girato in impervie location tra l’Abruzzo e le Dolomiti, con troupe per lo più italiana con la quale ebbe non pochi problemi di comunicazione, pensava che le riprese di un’avventura di quattro ragazzini alla ricerca di un tesoro di pirati sarebbe stata una passeggiata. Non fu così perché i giovani attori erano assolutamente indisciplinati e avevano un livello di attenzione pari a quello di un diavoletto perennemente sovraeccitato. Però l’alchimia che si creò tra loro fu comunque incredibile e, ad aiutare sul set, intervenne tantissimo Spielberg che, siamo sicuri, diede ben più di una mano in alcune scene.
Nella sequenza di apertura, infatti, in cui si assiste alla rocambolesca fuga di prigione di uno dei componenti della banda Fratelli, è assolutamente inconfondibile la mano del regista nel modo in cui viene sapientemente orchestrata la fuga in auto dei banditi che incrocia vari momenti della vita quotidiana dei protagonisti senza che questi se ne accorgano, con un effetto comico, nonché spettacolare, davvero irresistibile. Un pezzo di puro cinema spielberghiano dal ritmo indiavolato e dalla genialità visiva nella quale la composizione delle inquadrature si fa narrazione efficace, esilarante e avvincente: mentre in primo piano assistiamo a scene dei protagonisti impegnati in attività quotidiane in varie location del paese, sullo sfondo passano le macchine della polizia che inseguono i banditi sparando all’impazzata, il tutto senza che nessuno se ne accorga – tranne l’onnivoro Chunck.
Altro momento dal sapore decisamente spielbeghiano è quello del pozzo dei desideri. Nel percorso di sotterranei, irto di trappole e tracobetti, che condurrà all’antico galeone del pirata Willi l’Orbo e al tesoro, i ragazzi arriveranno sotto quello che è il pozzo dei desideri situato nel parco della città. Lì si trovano migliaia di monete che le persone vi hanno gettato, esprimendo un desiderio. Prima che Mickey e gli altri comincino a raccoglierle, Stef, una delle ragazze unitasi al gruppo, li ferma, ricordando loro che quelli sono i sogni di qualcun altro e che quindi bisogna lasciarli stare dove sono. L’importanza del sognare è dunque una priorità consapevole per i protagonisti. Non solo, in questa scena il gruppo ha la possibilità di fuggire attraverso il pozzo, facendosi portare su tramite un secchio trascinato da alcuni ragazzi che in quel momento si trovano in superficie. I giovani hanno così la possibilità di tornare alle loro case e alla vita ordinaria, sfuggendo ai pericoli mortali che ancora si celano nel percorso verso il tesoro.
È qui che Mickey, il sognatore che si sente idealmente vicino al pirata Willy l’Orbo, da lui considerato primo Goony della storia – in quanto emarginato e perseguitato dalla marina inglese – pronuncia il famoso discorso, diventato ormai cult, per convincere i suoi amici a proseguire l’avventura e trovare il ricco tesoro che consentirà alle famiglie di tutti di riscattare le case messe sotto ipoteca ed evitare lo sfratto imminente: La prossima volta che vedrai il cielo, sarà quello di un’altra città. La prossima volta che farai un esame, lo farai in un’altra scuola. I nostri genitori hanno sempre fatto quello che è giusto per noi. Ma adesso devono fare quello che è giusto per loro. Perché è il loro momento, lassù. Ma qua sotto è il nostro momento. È il nostro momento qua sotto. E finirà tutto nell’istante in cui salteremo dentro questo secchio. Avventura, sogno e conseguente riscatto sociale vs. grigia vita quotidiana e conseguente cacciata dai luoghi dell’infanzia. Cosa c’è di più spielberghiano di questo?
Questa settimana I Goonies è tornato nelle sale per pochi giorni in una nuova edizione rimasterizzata per l’occasione. Per chi ha amato le avventure dei quattro sfigati di Astoria, ritrovarli su grande schermo vuol dire una rimpatriata con dei vecchi amici e soprattutto scoperchiare un prezioso baule che si trovava nella soffitta dei ricordi di una stagione indimenticabile della propria vita, mentre per chi non ha vissuto quell’epoca può essere l’occasione di riscoprire un cinema fresco, semplice e divertente che, nonostante la grossa produzione alle spalle, veniva fatto col cuore, come spesso non si fa più adesso.
P.S.: da notare che in una scena un poliziotto fa esplicito riferimento a delle creaturine dispettose che si moltiplicano con l’acqua. Il rimando ai Gremlins, altra produzione spielberghiana uscita l’anno precedente, è chiaro. Oggi si direbbe che i due film condividano lo stesso universo e si azzarderebbe l’ipotesi di uno spielberg-verse. In realtà si trattò di nient’altro che una strizzata d’occhio, rivolta agli spettatori più avvezzi.