La notizia della bomba deflagrò nelle case con il telegiornale della sera. Il senso delle parole – bomba ad alto potenziale, salone di una banca affollato – fu compreso dai più vecchi che lo tradussero immediatamente in immagini tratte dall’archivio di una memoria ancora fresco di dolore. Per i più giovani, per quelli come me, che avevo diciannove anni, le notizie di quella sera e dei giorni seguenti stravolsero e cambiarono il segno di ciò che stavamo vivendo in quei mesi del 1969. Le piazze colorate, i cortei sempre più numerosi, una gioventù (la meglio gioventù si sarebbe chiamata in seguito) che voleva, affermando tutte le possibili declinazioni della parola libertà, vivere il sogno di un futuro svincolato dalle regole, dalle imposizioni, dai condizionamenti di un autoritarismo che in famiglia come nelle scuole e nelle università sembrava appartenere per sempre al passato. Volevamo tutti uccidere il Padre pensando che fosse possibile farlo, con leggerezza e gioia, gridando a squarciagola, abbracciandoci nei cortei e fronteggiando a mani nude celerini e poliziotti che di fronte a quella fiumana vociante sempre più spesso arretravano.
La bomba a Milano, nel salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura, quel pomeriggio del 12 dicembre, rubò a tutti noi giovani l’innocenza. Scoprimmo da quel momento, e sempre di più negli anni che seguirono, che lo Stato non era di tutti, sopra tutti, severo ma vincolato alle leggi: quello Stato, quella Repubblica Italiana, uscita dalla Resistenza, come si diceva allora senza retorica e che si sarebbe ripetuto stancamente anche dopo, si sarebbe invece frapposto con tutta la forza dei suoi apparati tra noi e il nostro sogno di un futuro diverso, egualitario per opportunità, paritario tra i sessi, giusto nella combinazione tra i fattori della produzione.
I servizi segreti – dei Ministeri della Difesa e dell’Interno, dei militari americani di stanza in Italia – una parte consistente del governo, tutte le diverse anime della destra politica, i principali organi di informazione, una magistratura compiacente diressero gli effetti di quella bomba prima contro il movimento operaio e studentesco e dopo, per cinquant’anni, contro tutti coloro che chiedevano che giustizia fosse fatta e quei diciassette morti potessero riposare in pace. Lo Stato, questo Stato, ha rifiutato di processare se stesso. Lo ha fatto usando tutti i mezzi a sua disposizione, cercando innanzitutto di fiaccare la resistenza dei familiari delle vittime, delle diciassette vedove – mostrando sfrontatamente il suo volto sessista – costringendole a seguire duecento udienze del processo a Catanzaro, a più di mille chilometri di distanza dalle loro case, dai propri figli e dalle proprie occupazioni. Nessuno mosse un dito contro questo stupro giudiziario e coloro, fra i magistrati, che provarono a protestare furono intimiditi, denunciati al Consiglio Superiore della Magistratura, sospesi dal servizio.
La spessa cortina fumogena che ha avvolto l’iter giudiziario relativo ai fatti di Piazza Fontana e a quelli a essi immediatamente limitrofi, composto di cinque processi per oltre mille udienze, consente ancora in questi giorni di riproporre, da parte del principale quotidiano italiano, una lettura delle responsabilità ridotta a una storia di opposti estremismi, mal sorvegliati e mal inquisiti e di una magistratura divisa tra componenti politiche.
Quella indecifrabilità dei percorsi investigativi e giudiziari, la miriade di piste autentiche e scientemente falsate, le numerose ricostruzioni dei diversi soggetti implicati – esecutori, mandanti politici di primo livello, mandanti politici di livello più alto, servizi segreti in concorrenza fra loro – giustificate tutte dal vuoto orrendo di una sentenza definitiva di condanna, ha prodotto un fiorire di libri su Piazza Fontana. Ventuno solo in questo anno, alcuni dei quali, come quello di Guido Salvini La maledizione di Piazza Fontana, destinati a provocare polemiche accesissime, senza però produrre quello che i familiari delle vittime auspicherebbero: la riapertura delle indagini e un nuovo processo che metta, con autorevolezza, la parola fine alla vicenda, restituendo agli organi dello Stato e alla magistratura una qualche credibilità.
Furono i trecentomila volti tesi dalla indignazione, impassibili, in una Piazza Duomo gremita all’inverosimile, senza che nemmeno un fruscio fosse udibile, il 15 dicembre 1969, fu quel grido muto di indignazione e di denuncia che restituì a una parte della mia generazione, dopo l’innocenza perduta, almeno la speranza. Da allora, dopo i funerali delle vittime qualcosa cambiò.
Fu proprio a Milano e in Banca Nazionale dell’Agricoltura – che era allora la banca più nera d’Italia, con la Cisnal come primo sindacato e l’aristocrazia nera romana tra i primi clienti e fiduciari – che si costituì l’embrione di un sindacato unitario il quale, con l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori del 1970, poté dilagare in tutte le filiali. Ci vollero alcuni anni, ma anche la cultura d’impresa, quella introiettata dai dipendenti, si schiuse verso un orizzonte presidiato dai diritti e sostenuto da una leva di sindacalisti appassionati di diverse appartenenze politiche e ideali, stretti da un patto unitario che consentì alla BNA di diventare uno degli istituti di credito con il maggior tasso di sindacalizzazione e con un volume di attività e di acquisizioni contrattuali fra i primi in Italia. Mantenendo, però, sempre costante e vigile lo sguardo sulle vicende giudiziarie, politiche e giornalistiche che riguardavano Piazza Fontana.
Grazie a questo lavoro di denuncia, di partecipazione, di coinvolgimento dei lavoratori, portato avanti per cinquant’anni da Fortunato Zinni, dalla leva dei sindacalisti degli anni Settanta e dall’Associazione dei familiari delle vittime, è stato possibile spingere le massime istituzioni del Paese a riprendere in mano il filo della memoria che si dipana da quel pomeriggio del 1969 ed esporsi con dichiarazioni e presenze tardive ma comunque importanti.
Oggi a Milano ci sarà Mattarella e qualche mese fa il Presidente della Camera ha chiesto scusa per i ritardi e l’omertà delle istituzioni. Oggi saremo a Piazza Fontana, in quel salone, noi gruppo di ex dipendenti e sindacalisti della BNA riuniti in occasione del cinquantesimo anniversario della strage. Verremo da varie parti d’Italia. Saremo lì, parteciperemo al corteo, ci ritroveremo stretti, commossi, tesi, uniti dalla consapevolezza del valore della testimonianza. Perché Piazza Fontana non era, Piazza Fontana è. Non è possibile ipotizzare un progetto di futuro, che abbia qualche probabilità di affermazione, senza tenere in debito conto gli insegnamenti che Piazza Fontana lascia in eredità.
Anche se allo stato delle cose, sebbene in Italia non siano percepibili visioni credibili di cambiamento in senso progressista, né tanto meno soggetti che di questo cambiamento possano farsi artefici, le forze della conservazione, apparati dello Stato e potenze straniere in grado di condizionarli sono viceversa rimasti in tutti questi anni al riparo, resi più forti dall’impunità giudiziaria e dalla mancanza di una unanime riprovazione sociale.
In questi mesi, il gruppo per i cinquant’anni ha organizzato riunioni, incontri e assemblee nelle scuole, a me è capitato di confrontarmi con i giovani delle superiori: ovunque, un inaspettato grande interesse, molte domande, una presa di consapevolezza lontana dalla rassegnazione e dal qualunquismo. C’è speranza, quindi? Non lo so. Di una cosa però sono certo: la narrazione dei fatti, degli intrighi e di tutti gli avvenimenti incredibili dei quali la vicenda di Piazza Fontana è colma, serve a questi giovani per partire verso la vita senza illusioni, senza dover subire il trauma della perdita dell’innocenza come è capitato alla nostra generazione, quindi un po’ più avanti: consapevoli di poter contare solo sulle proprie forze, sui valori che avranno maturato con la riflessione, sugli obiettivi che si saranno dati, e convinti della necessità di esigere sempre, con determinazione e in tutte le occasioni, verità e giustizia.
Contributo a cura di Pierluigi Del Pinto