L’inclusione, nel suo significato letterale, indica un tipo di società in cui è garantito l’inserimento di qualunque individuo, prescindendo le differenze o gli elementi limitanti che lo rendono diverso dal resto della comunità. Ma l’inclusione vera e propria, quella che ne rispetta il significato completo, sta nel non vedere, anzi, nel non farle proprio le differenze, creando un senso comunitario che anticipi qualunque discrepanza e che veda nella diversità una ricchezza.
In Italia, ormai è tristemente evidente, di inclusione ce n’è poca e anzi la discriminazione, in tutte le sue forme, è profondamente insinuata in qualunque ambito: lavorativo, scolastico, sociale e, irragionevolmente, anche sportivo. Da ignobile pecca delle innumerevoli realtà sportive, quello del calcio rappresenta un paradosso non solo italiano che trasforma il gioco in una guerra. Gli sport, soprattutto se di squadra, dovrebbero trovare nel senso comunitario e nell’inclusione i più grandi valori. Abbastanza legati alla propria squadra da percepire senso di appartenenza, ma non troppo, in modo da non intaccare la sportività e il rispetto nei confronti dei propri avversari. Voglia di vincere che non significa voglia di sconfiggere, di sovrastare, di conquistare. Valori che, a partire dal motore della società che lo sport rappresenta, dovrebbero poi riflettersi nella vita di tutti i giorni. Eppure, in nome delle più care virtù che l’Italia ha a cuore, il calcio segue a ruota il resto del Paese in una triste discesa verso l’esclusione.
Di episodi di razzismo in campo il calcio ne è pieno, ma adesso gli insulti e gli atteggiamenti non si limitano più alla sospensione di qualche partita e provocano una vera e propria fuga di chi di essere discriminato non ne può più. Eniola Aluko è una calciatrice inglese di 32 anni, che a partire dalla passata stagione è entrata nella Juventus femminile, conquistando, insieme alla squadra, innumerevoli successi. Lo scorso weekend, in occasione della partita contro la Fiorentina, ha pubblicato un articolo sul The Guardian, il quotidiano inglese con cui collabora da tempo. Fine del mio capitolo italiano, così inizia il lungo articolo con il quale l’atleta ha annunciato di lasciare la squadra – e l’Italia – per tornare a Londra. Il suo elogio al suo lavoro qui, ai successi, alle sue compagne e ad allenatori e tecnici è solo l’introduzione di quella che diventa presto una rassegnata accusa all’atmosfera italiana, che l’ha spinta ad abbandonare la squadra a metà campionato. A Torino, dove vive da un anno e mezzo, non ha incontrato altro che razzismo, ha percepito continuo sospetto provocato dal colore della sua pelle e le insufficienti briciole di inclusione che ha raccolto nel suo lavoro non sono bastate per farla restare.
Nella sua garbata ma schietta analisi, Eni parla di due realtà diverse, quella dentro il campo e quella fuori dal campo. In gioco ha raggiunto successi insieme a una squadra, a una collettività inclusiva e integrata, ma fuori, nella vita, si è sentita costantemente discriminata da una società che sembra essere un paio di decadi indietro in termini di apertura generale a tipi di persone differenti. La giovane descrive una città e un Paese arretrati, in cui una donna di colore che entra in un negozio o all’aeroporto è trattata con sospetto, come fosse una ladra pronta a rubare in qualsiasi momento. E anche se lei, almeno sul campo, non ha sperimentato la stessa atmosfera, è consapevole che il razzismo rappresenti un aspetto fin troppo radicato nel mondo del calcio.
Non sono rari gli esempi di urla e fischi a giocatori di colore che negli stadi incontrano il malcontento dei tifosi e che minacciano di interrompere il gioco o di lasciare la partita, divenuti ormai incapaci di sopportare ulteriori angherie. E non mancano parole di possibili provvedimenti da parte di chi il calcio lo gestisce, ma per ora si è fatto ben poco nei confronti di una platea di tifosi insofferente e irrispettosa. Ed è anche di loro che Eni parla nel suo articolo, commentando quanto la cultura del razzismo sia profondamente legata al suo sport. Sostiene che all’interno della tifoseria sia considerata addirittura lecita, aspetto in realtà facilmente riscontrabile nell’accanimento di certi fan che si sentono autorizzati a superare qualche limite perché distinguono il gioco dalla vita vera. Come se lo sport non fosse lo specchio della società, come se la violenza e il razzismo potessero fermarsi alla sfera del calcio, al confine con la vita esterna senza valicarlo mai, senza riversarsi mai nella quotidianità.
Il problema più grande, allora, forse risiede proprio qui, nel continuo giustificare comportamenti inaccettabili, sentimenti di odio profondo e triste assenza di empatia nei confronti di altri esseri umani che sotto i colori – della pelle e della maglia – custodiscono lo stesso sangue, le stesse sofferenze e lo stesso cuore. E attraverso questa angosciante realtà, un gioco, uno sport, qualcosa che dovrebbe divertire, educare e unire diventa il riflesso di una strana devianza, di un morbo condiviso che distrugge il senso umano a favore del disumano.
La storia di Eni, una ragazza piena di talento, non finirà di certo qui. La sua bravura e la sua grinta la porteranno lontano, ma difficilmente la riporteranno in Italia. Che una donna, un’atleta, una persona, decida di andarsene dal nostro Paese, non per migliori opportunità, non perché insoddisfatta dell’ambiente lavorativo, ma perché costantemente discriminata, rappresenta un perfetto esempio della gravissima situazione italiana. Di un’Italia intollerante, che si lamenta della fuga dei cervelli ma non sa includere il suo potenziale, che vuole attrarre le eccellenze ma non sa tenersele se non sono del colore giusto. Un’Italia che, finché non imparerà l’inclusione, finché non smetterà di limitarsi a vestirsene e inizierà a includerla radicalmente nel suo DNA, resterà sempre incompleta e globale solo a metà.