Ci sono eroi che non sanno di esserlo ma che con le loro azioni di amore, sacrificio e onestà lasciano un messaggio più importante di tante parole. Adriano Di Nuzzo è uno di questi, fondatore nel 2015 di We Africa to Red Earth, in supporto del popolo burkinabé con una missione umanitaria che è la sua vita e che rappresenta tutti i suoi valori.
Adriano è un idraulico salentino che dal 2015, guidato dai passi del missionario cristiano Umberto Trapi, porta in Africa quella goccia che è stata tolta a un intero continente attraverso sfruttamento e barbarie. L’abbiamo ascoltato con sincera stima per l’aiuto concreto che fornisce, con in sottofondo le straordinarie risate e urla dei bambini del suo asilo.
Com’è nato il progetto di We Africa to Red Earth e com’è avvenuta la sua realizzazione concreta?
«Tutto è nato con l’incontro di una persona straordinaria che si chiamava Umberto Trapi. Era un missionario di Anagni e ha dedicato tutta la sua vita per il prossimo. Viveva in Burkina Faso con la moglie Lisa e si occupava del popolo burkinabé. Era un forte credente, ma non come i soliti credenti che parlano senza fare. L’ho incontrato per caso in Salento. Mia moglie l’ha conosciuto e l’ha invitato a cena da noi. A casa ci ha raccontato il suo mondo e la sua storia – era il 2013 – e mi ha talmente tanto affascinato che gli ho promesso che sarei andato a trovarlo nel dicembre 2014. Una volta in Burkina Faso, mi si è aperta una nuova vita: qualcosa dentro me è scattato, una sorta di rigetto. Stavo male vedendo tutta questa ingiustizia e quando sono ritornato a casa ne ho parlato con mia moglie per fare qualcosa. Volevamo aprire un’associazione per prendere fondi e aiutare sia la famiglia Trapi – che gestisce un asilo di 100 bambini – sia donare acqua a quel popolo, essendo un idraulico, perché ci sono tanti villaggi che non ne hanno. Nel marzo 2015 abbiamo aperto We Africa e da lì è nato tutto. Dopo qualche giorno, Umberto Trapi è venuto a mancare. La mia famiglia e io mettiamo Dio sopra ogni cosa, così ho capito che mi stava parlando e che la mia vita sarebbe cambiata. Sono nato in Svizzera, sono stato lì per trentasei anni e per nove ho vissuto in Salento per assistere i miei suoceri. Questo per me è credere: decidere di lasciare la sicurezza della Svizzera con tre figli per arrivare in un posto da cui molti vanno via perché non c’è lavoro, una dimostrazione del fatto che ci muoviamo per fede e non per interessi. Così è nata We Africa. Ogni giorno capisco sempre di più perché e si aggiunge un tassello».
Cosa vi ha spinto a scegliere il popolo burkinabé e una simile missione?
«Non ho scelto questo popolo. Venire qui tramite Umberto Trapi non è stato un caso. Sono molto credente e con la mia famiglia cerchiamo di fare tutto ciò che dice la Bibbia, anche se c’è sempre un prezzo da pagare. Non tutti vogliono farlo. Secondo me è un disegno divino: il Burkina Faso è stato un dono di Dio. Sono solo uno strumento nelle sue mani, sto continuando l’opera a cui Umberto Trapi ha dedicato quarant’anni di vita. Non so se riuscirò a fare la metà di quello che ha realizzato lui ma il mio dovere è fare del bene al prossimo. È una cosa che deve passare per normalità, soprattutto dopo tutto quello che l’uomo bianco ha fatto in questo continente. L’Africa è stata derubata, è stata sfruttata; io sto ridando quella goccia che è le stata tolta».
Con We Africa avete lavorato alla costruzione di pozzi d’acqua, alla ristrutturazione e a beni di prima necessità. Come siete stati accolti dagli abitanti del Burkina Faso?
«Quando siamo arrivati nel dicembre 2015 non ci hanno fatto subito feste, hanno sofferto e stanno soffrendo per tante cause, ma oggi si fidano di noi perché hanno visto il nostro aiuto concreto senza chiedere nulla in cambio. Ogni pozzo che facciamo è in un villaggio diverso; ci sono bambini che non hanno mai visto un bianco, rimangono a bocca aperta e metà di loro scappa perché ha paura. Sta a te conquistare la loro fiducia con piccoli gesti, come una caramella. Poi vedono quello che facciamo e diventa una festa ogni giorno. Prima, nel quartiere, mi chiamavano il bianco: adesso invece ovunque io vada – e questo non mi fa sentire grande ma mi fa capire che sto facendo il lavoro giusto – mi chiamano Adriano ed è una cosa bellissima. Auguro a tutti di farsi chiamare per nome in un Paese tanto lontano».
Attraverso le vostre missioni avete dato la possibilità a tanti bambini e ragazzi di sognare e di migliorare le proprie condizioni di vita. Cosa dovremmo imparare da loro e quale messaggio vorreste proporre alla nostra società?
«Da quando sono in Burkina Faso mi è cambiata la vita. Questo popolo mi ha fatto capire tante cose. Non voglio essere un eroe perché per me gli eroi non esistono ma voglio essere un esempio semplice. Mi hanno insegnato tanto sul lato umano; vivere nella semplicità e serenità, vivere come fosse l’ultimo giorno anche se ci sono mille problemi. È un sacrificio enorme senza pretendere niente in cambio, seguire la parola di Dio ha questo prezzo da pagare. Sono tutti bravi a parlare ma pochi a pagarne il prezzo. Vedere un bambino ringraziarmi perché lo sto aiutando è una cosa magnifica: vedere il loro sorriso e il loro rispetto, anche se sai che non hanno niente. Se prendi un bambino del Burkina e lo porti in Italia per me l’hai rovinato per sempre per il contesto che c’è. Loro non immaginano quello che abbiamo, il loro mondo è quello. Noi abbiamo il nostro, ma non siamo felici perché vogliamo sempre di più e non ci accontentiamo mai. Deve essere la normalità aiutare il prossimo, ma non serve venire in Africa, si può fare ovunque siamo. Basta anche visitare la vedova del paese che ha i figli lontani, prendere un caffè con lei. A me è stata una chiamata. Difficilmente mi lamento, voglio essere un esempio soprattutto per i miei figli. Certo, prenderanno la loro strada, il cordone ombelicale bisogna tagliarlo, come dice Gesù noi siamo qui per dare loro il meglio e per me il meglio non sono i soldi o una casa, ma sono i valori della vita».
Date la possibilità anche a chi vi supporta di partecipare alle vostre missioni umanitarie. Come funziona il progetto e perché è così importante condividerlo?
«Diamo la possibilità a tutti di venire qui. Il Paese adesso è in codice rosso: dal 2017 a oggi gli attentati si sono moltiplicati per dieci. Ci sono tanti morti per jihadisti e cause politiche. È molto rischioso per un bianco perché ce ne sono pochissimi, forse adesso sono l’unico. A inizio dicembre arriverà un gruppo di sei persone che ha richiesto a gennaio di partecipare, di più non possono venire perché già così danno nell’occhio. Venendo da solo, io faccio ugualmente il lavoro, costruiamo pozzi e la scuola va avanti, gestirmi è molto più facile però, per come è cambiata la mia vita, non posso far finta di nulla. Per me è un dovere portare qui le persone che vogliono venire, ognuno paga le proprie spese e parte con We Africa, do la possibilità di cambiare la propria vita. Non è detto che succederà, ma è il mio dovere da cristiano. Ogni fine gennaio escono dei moduli di iscrizione su www.weafrica.org e a marzo scelgo i partecipanti: finora abbiamo fatto per estrazione ma siccome molti si ritiravano per paura, da adesso contatterò tutti quelli che si iscrivono per vedere se davvero vogliono partire per il dicembre successivo».
Dedicarti a questa missione ha comportato rinunce per la tua vita? Cosa, invece, hai guadagnato umanamente a livello personale?
«Ho sempre lavorato come idraulico, ho imparato il mestiere in Svizzera. Venendo in Italia ho aperto una piccola azienda per sopravvivere perché sapevo fare solo quello. We Africa non la conosceva nessuno ma le donazioni per i lavori sono sempre arrivate. Mi pagavo i biglietti da solo con alle spalle una famiglia di tre bambini, con tanti sacrifici per sopravvivere come molti in Italia. Non avevo risparmi, certi mesi non lavoravo o non venivo pagato, ma abbiamo dimostrato che anche senza soldi possiamo aiutare il prossimo. Tanta gente dice se avessi avuto la tua stessa possibilità lo avrei fatto anche io. Ma quale possibilità avevo io? Nessuna. Tuttora non ne ho. Ma negli anni le cose stanno cambiando. Abbiamo fatto domanda per diventare ONLUS, dall’estate prossima convertita in ODV (organizzazione di volontariato). In Italia ci vogliono mesi perché è tutto a rilento ma ho lasciato la ditta, ho chiuso la partita IVA e mi sto dedicando a questo al 100%. Quel che c’è da fare qui bisogna farlo a tempo pieno. I sacrifici ci sono per mandare avanti una famiglia; in Svizzera lavoro dieci settimane all’anno (equivalenti a sei, sette mesi in Italia) e cerchiamo di sopravvivere così. Spero dall’anno prossimo di farlo – non come lavoro – ma come passione al 100%. Sentire una persona che si lamenta quando ha tutto mi fa stare male, non abbiamo soldi da parte ma noi viviamo in una gioia assoluta».
Molti personaggi dello spettacolo hanno sostenuto e contribuito alla vostra missione. Come siete stati accolti dall’opinione pubblica? Credi vi sia ancora qualche sorta di scetticismo verso le associazioni umanitarie?
«Col mondo dello spettacolo non è tutto oro quello che luccica; ci sono persone serie che ci stanno aiutando ma non ci aspettiamo troppo. I personaggi pubblici stanno vedendo la semplicità in noi: Armando Izzo, giocatore del Torino, con la sua famiglia ci ha molto aiutato, Mario Balotelli ci ha fatto arrivare di tutto in termini di materiale calcistico, dalle scarpe, alle magliette, ai palloni. Sono gesti che cambiano la vita. Per i bambini acqua e pallone sono tutto. Ci sono cantanti, personaggi, ma bisogna vedere l’altra faccia della medaglia: bisogna capire quando qualcuno usa la tua immagine come pubblicità. I giornali parlano bene di noi perché non abbiamo mai mostrato cose non vere. Facciamo vedere il sorriso del popolo burkinabé ed evitiamo come altri di far vedere solo cose brutte. Di tragedie potrei farne vedere a milioni, usando un bambino malato per toccare il cuore della gente. Noi facciamo il contrario, vogliamo mostrare la loro felicità. Capisco che la gente non si fida perché è stata bruciata da tante situazioni, ma noi nel nostro piccolo andiamo avanti e la gente vedrà che è tutto vero. Dovrebbe bastare già il fatto che io adesso sono lontano dalla mia famiglia da tre mesi, rischio la vita in un Paese in allarme. Lasciamo parlare i fatti, in quattro anni abbiamo fatto undici pozzi, senza parlare delle scuole, del sostegno all’asilo e della distribuzione di cibo».
Sul vostro sito c’è una citazione: La solidarietà è l’unico investimento che non finisce mai. Quali sono i progetti futuri di We Africa?
«A dicembre nascerà l’undicesimo pozzo, aspetto i ragazzi per avviare i lavori. I nostri progetti futuri sono di continuare il più possibile perché qui non piove come dovrebbe. Il livello dell’acqua nella terra scende di anno in anno e arriverà il momento in cui non riusciremo a fare più manualmente i pozzi. È una terra secca, molto arida: finché possiamo continueremo così, poi ci inventeremo qualcosa. Porteremo pannelli solari o le pompe elettriche. Un pozzo deve essere mantenuto, riparato, può durare quattro, cinque anni senza riparazione ma altre volte dopo un anno e mezzo siamo dovuti intervenire. Costruire non basta; anche le scuole che abbiamo devono essere finanziate di anno in anno coi soldi per il materiale, per pagare le maestre, i bidelli, i guardiani. L’obiettivo è continuare, se il Comune ci darà la possibilità. Sosteniamo un asilo per bambini dai 3 ai 6 anni, dando la possibilità dopo l’asilo di affrontare la scuola pubblica che però è lontana da dove siamo. Molte famiglie non mandano i loro figli. L’idea è stata di costruire due classi a cinquanta metri dall’asilo ma il Comune ci impedisce di continuare perché dice che ci serve un grande terreno. Ci metterà sempre i bastoni tra le ruote per spingere i bambini alla scuola pubblica e non a questa che è privata. Ci ha lasciato però la prima e la seconda elementare e già è un traguardo far frequentare le prime due classi in modo che siano almeno più grandi. Continueremo con l’aiuto alle vedove e agli orfani con le adozioni a distanza. Se ne occupava già la moglie di Umberto Trapi, ma ormai è anziana, così abbiamo preso tutto noi in mano. Qui stiamo visitando e conoscendo gli orfani della nostra lista, occuparsi di loro e delle mamme è la cosa più bella che possiamo fare davanti a Dio. Siamo una piccola realtà che si muove alla luce del sole e con onestà».
Fotografie di We Africa to Red Earth (Adriano Di Nuzzo)
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