«Dovessi dirti quali sono le differenze tra il fare ricerca all’estero o in Italia, probabilmente direi che all’estero hanno decisamente più fondi e maggiori opportunità. Non che lì non ci siano posti assegnati per nepotismo o politica o che non ci siano scandali di alcun tipo, ma avendo maggiori risorse dell’Italia ci sono più chance di avere successo per chi merita e vuole fare ricerca. Di contro, c’è che in Italia lo stipendio viene pagato e se diventi professore difficilmente ti mandano via, qui invece trovare un lavoro da Assistant Professor (il primo livello) significa, nella maggior parte dei casi, che devi trovare anche i fondi per pagare lo stipendio tuo e dei tuoi dipendenti e quindi per coprire salari e ricerca devi quasi costantemente fare domanda per i finanziamenti». Napoletana, laureata in Biotecnologie Mediche, Claudia Cosentino comincia così la nostra chiacchierata prevedendo una domanda in genere scontata quando si parla di ricerca. Il suo pensiero è più che condivisibile anche in ragione di un viaggio che il nostro giornale sta da alcune settimane compiendo tra italiani all’estero incontrando prevalentemente giovani ricercatori sia negli USA che in Europa e la prossima settimana anche in Australia.
Claudia ha le idee molto chiare e sa bene che l’obiettivo, adesso, è l’insegnamento, anche se di esperienze per brevi periodi già ne ha avute diverse. Ma conosciamo attraverso il suo racconto qual è stato il percorso che l’ha portata prima a Boston e poi a New York.
Hai cominciato a Napoli, poi una breve esperienza a South Mimms (Inghilterra) per approdare in quella che è definita da sempre la città più europea d’America, Boston. Infine New York. La ricerca come obiettivo sin dall’inizio dei tuoi studi in Biotecnologie Mediche: quali i motivi di una scelta di campo così precisa?
«Mi sono sempre piaciute le materie scientifiche più di quelle letterarie e ancora ricordo quando alle superiori abbiamo studiato biologia. Sottolineavo ogni pagina del libro con la matita rossa e blu, a seconda dell’importanza del concetto e scrivevo di lato appunti e riassunti. Decisamente è nato lì il mio interesse per la biologia. Durante l’ultimo anno delle superiori, quando oramai avevo deciso di voler fare ricerca, andai con degli amici alla Mostra d’Oltremare a un evento di orientamento universitario. Pensavo di voler fare Ingegneria Genetica o Medicina ma poi leggendo la descrizione delle varie facoltà scoprì Biotecnologie Mediche. Non aveva ancora laureati, io mi iscrissi al secondo anno di attivazione quindi era un po’ una scommessa, ma sulla carta aveva tutto ciò che mi piaceva e apriva la strada alla ricerca nel campo della biologia umana e genetica».
In Italia non ci sono soldi per la ricerca, finirai a fare la vita del precario: questa la frase che mi hai detto ti sei sentita ripetere molte volte, ma il tuo esordio come ricercatrice è stato a Napoli. Poi cosa è accaduto?
«È accaduto che nel laboratorio del Prof. Avvedimento presso la Federico II ho avuto modo di incontrare molte persone che mi dicevano quanto fosse importante un’esperienza all’estero. Una di queste persone è Vincenzo Costanzo. Vincenzo ha fatto il dottorato nel mio stesso laboratorio a Napoli ma era qualche anno più avanti di me. Prima di avere il suo gruppo all’IFOM a Milano, ha diretto un laboratorio al Cancer Research UK Clare Hall Laboratories a South Mimms, vicino Londra, e mi ha offerto di andare lì per qualche mese al termine del dottorato. Dovevano essere 3-4 mesi e sono diventati 9-10. Poi sono tornata a Napoli per scrivere la tesi di dottorato e sono ritornata nel suo laboratorio. Avevamo iniziato un progetto interessante e avevo la possibilità di completarlo, cosi sono rimasta altri 3 anni circa».
La tua esperienza lavorativa in Inghilterra mi sembra ti abbia gratificata molto professionalmente, quali gli obiettivi della ricerca?
«Lavoravamo su una proteina che si chiama ATM ed è fondamentale nel proteggere l’integrità del DNA delle nostre cellule. Come molti sanno, il DNA contiene tutte le informazioni necessarie per far funzionare il nostro corpo ma siamo esposti a mille fattori che possono danneggiarlo. Si parla spesso di fumo e raggi ultravioletti ma non sono gli unici. Ad ogni modo, le nostre cellule hanno un complesso sistema di sorveglianza che fa tutto il possibile per riparare il DNA in maniera fedele nel caso dovesse essere danneggiato. ATM è una delle proteine al centro di questo sistema di sorveglianza. Esiste una malattia genetica in cui ATM non funziona come dovrebbe, il quadro clinico di questa patologia si spiega in gran parte con l’incapacità delle cellule di riparare il DNA, ma non interamente. Noi abbiamo scoperto che per capire meglio i sintomi di questa patologia va considerato anche il ruolo di ATM nel ridurre lo stress ossidativo (i famosi radicali liberi) e nel controllare come le cellule utilizzano il glucosio».
Grande e comprensibile soddisfazione per i risultati raggiunti a Londra, poi a Boston nel laboratorio di Raul Mostoslavsky al Massachusetts General Hospital-Harvard University. Un’opportunità da non farsi scappare?
«Decisamente un’occasione straordinaria in una delle principali città per la ricerca, ma anche un’occasione cercata. Quando stavo per concludere il progetto in Inghilterra ho mandato alcune email e CV a Boston e da qui l’occasione di fare dei colloqui in città. Raul mi ha colpito per il suo entusiasmo e la sua personalità solare oltre che per il suo lavoro. A questo aggiungi che in laboratorio aveva un gruppo affiatato. Insomma, sotto tutti gli aspetti il posto giusto per vivere un’esperienza di ricerca in America».
Nei tuoi trasferimenti ti tornava in mente la fatidica frase sulla vita da precaria o si rafforzava in te la convinzione di fare scelte maturate con esperienze positive e gratificanti?
«Quella frase ha contribuito a far sì che io fossi pronta a lasciare l’Italia ma non penso abbia influenzato le scelte successive. Certo, vedevo i miei amici e colleghi avere difficoltà a trovare lavoro a Napoli e cercare percorsi alternativi e non pensavo sarebbe stato diverso per me, ma la verità è che al termine del mio dottorato sono tornata in Inghilterra senza valutare alcuna alternativa e dopo il postdoc non ho cercato lavoro in Italia ma direttamente in America. Ogni trasferimento insomma è stato dettato dal desiderio di provare esperienze nuove ed eventi della vita».
Dopo dieci anni di ricerca la convinzione che l’insegnamento universitario potesse regalarti maggiori soddisfazioni. Oggi insegni all’Hunter College a New York. Com’è maturata questa scelta?
«L’insegnamento faceva parte del disegno da tempo, solo avevo sempre pensato si sarebbe accompagnato alla ricerca. Negli Stati Uniti, però, ho visto che per avere un tuo laboratorio non devi solo avere dei progetti validi in mente e creare un buon gruppo ma anche essere disposto a viaggiare non poco per conferenze e seminari e, soprattutto, scrivere grant proposal dopo grant proposal per garantirti fondi sufficienti per supportare economicamente i progetti e coprire, come ti ho detto, i salari per le persone del tuo gruppo e te stesso. E tutti questi sacrifici e compromessi vengono dopo che già ne devi fare parecchi per arrivare a quel punto. Conoscendomi, per continuare quel percorso avrei dovuto rinunciare a mantenere il mio equilibrio tra vita professionale e privata e semplicemente non volevo. L’insegnamento mi permette di restare nell’ambiente che mi piace ma anche di trovare e mantenere quest’equilibrio».
La domanda finale che ho posto anche nelle altre interviste: arrivasse una telefonata dall’Italia per comunicarti la disponibilità di una cattedra universitaria nel tuo Paese, cosa faresti?
«Bella domanda… C’è stato un momento in cui forse avrei accettato senza pensarci su un istante, ma ora ci dovrei decisamente riflettere, perché oggi la mia vita è a New York nonostante abbia ancora un forte legame con l’Italia e Napoli in particolare».
Ancora una volta, questa di Claudia Cosentino è la testimonianza di come i giovani formati nelle nostre università riescano a inserirsi e a emergere in primarie strutture di importanza mondiale nel campo della ricerca, conseguendo traguardi impensabili nel nostro Paese dove ancora la meritocrazia è un vero e proprio miraggio.