Capitolo Primo: Adorava New York, la idolatrava smisuratamente… Ma no è meglio, la mitizzava smisuratamente. Ecco. Per lui in qualunque stagione questa era ancora una città che esisteva in bianco e nero e pulsava dei grandi motivi di George Gershwin. No fammi incominciare da capo…. – Woody Allen, Manhattan
La luce dorata di quel mago di Vittorio Storaro che si poggia delicatamente sulla pelle diafana della giovane Elle Fanning, ammantandola di delicatezza fiabesca, è la chiave per entrare nel mondo di questa nuova opera di Woody Allen. Un mondo che se ne infischia delle derive del presente e che insegue un ideale di bellezza, cultura e romanticismo sempre più difficile da realizzare nella realtà di oggi.
Gatsby Welles – c’è davvero bisogno di spiegare il senso di questo nome? –, interpretato dal lanciatissimo Timothée Chalamet, è un giovane rampollo di una ricca famiglia newyorchese che frequenta una prestigiosa università ed è fidanzato con Ashleigh, interpretata dalla giovane stella Elle Fanning, figlia di una famiglia di banchieri di Tucson, Arizona. I due ragazzi sono come il bianco e il nero: lui è innamorato della pioggia, di New York, dei vecchi film hollywoodiani, delle atmosfere da sordidi pianobar illuminati da suggestive volute di fumo, nonché del jazz di Charlie Parker o comunque di tutto ciò che è considerato fuori moda. Inoltre è un fenomenale giocatore di poker. Lei ama il sole, è ingenua al limite del consentito in una ventenne di oggi e, pur affermando di amare il cinema d’autore, viene invece rapita dalla superficialità del mondo dello spettacolo.
I due vanno a New York perché Ashleigh deve intervistare un famoso regista, Roland Pollard (Liev Schreiber) per il giornale del college, così Gatsby programma una giornata perfetta da trascorrere insieme nei luoghi a lui più cari della Grande Mela. Le cose però non andranno come previsto perché Ashleigh si farà prendere dai gorghi dell’affascinante mondo cinematografico newyorchese – incarnato dal trittico Leiv Schreiber, Jude Law e Diego Luna – mentre Welles incontrerà qualcuno del suo passato.
È evidente come il personaggio di Gatsby rappresenti Allen, non tanto nei tic e nelle idiosincrasie tipiche del regista – totalmente assenti in questo caso –, quanto invece nell’ideale di uomo innamorato di un mondo che non c’è più ma che può comunque servire da antidoto alle asprezze di un presente volgare e superficiale. Inoltre, il personaggio ha dalla sua la giovinezza, arma che gli consente una fuga dal destino che i suoi genitori hanno costruito per lui. Il destino implicito nel suo nome, letterario e al contempo cinematografico, invece, forse si realizzerà.
Nel frattempo, la giornata trascorsa nella sua adorata e piovosa New York lo riconnetterà con se stesso e con i suoi desideri interiori più forti. Soprattutto lo condurrà in un percorso di riconciliazione con la famiglia e con la madre, vista come matrigna a cui ribellarsi sempre e comunque. In un memorabile monologo, la genitrice – interpretata dalla bravissima Cherry Jones – farà delle rivelazioni che rimetteranno molte cose nella giusta prospettiva, permettendo al figlio di emanciparsi e intraprendere quella strada che forse lo porterà alla scoperta di sé.
Il percorso di Ashleigh, virato anch’esso in luci dorate dalla mano del leggendario Storaro, è invece lastricato di ottime intenzioni ma ha il fiato corto. La giovane resta invischiata nel sottobosco glamour delle star del cinema e, pur professandosi amante delle pellicole più autoriali del regista Pollard, si lascia irretire dalla fascinosa e inconsistente star Francisco Vega (Diego Luna). La ragazzina dell’Arizona che, in modo neanche tanto inconsapevole, trasforma la sua naiveté in arma di seduzione, rimarrà intrappolata in un’inconsapevolezza di sé che forse la condurrà sì al successo, ma certamente lontano da qualsiasi cosa che odori di vero. In effetti, neanche il regista intellettuale Pollard e lo sceneggiatore Ted Davidoff (Jude Law) ne usciranno bene.
C’è un particolare stilistico che ha ci stupito: in alcune scene girate in esterni, soprattutto quelle in taxi con Gatsby, nonostante fuori piova copiosamente, i corpi sono comunque illuminati da una luce dorata irreale, per quanto non sia impossibile che piova anche col sole. Di primo acchito questa scelta di fotografia, con quella luce che è poi un marchio di fabbrica di Storaro, colpisce per la sua stonatura col resto dell’ambiente piovoso. In realtà, ci riconduce a quell’ideale, forse irraggiungibile, ma sempre presente nella vita di Gatsby e di chi come lui vuole credere che sia ancora possibile una strada per la bellezza e la verità.
Curiosamente, come già successo con uno degli episodi del recente To Rome with love (2012), anche la struttura narrativa di Un giorno di pioggia a New York ricalca in parte il felliniano Lo sceicco bianco (1952) nel quale una coppia semplice – interpretati da Leopoldo Trieste e Brunella Bovo – veniva a Roma e la fidanzata si perdeva nel mondo artefatto dei fotoromanzi, incarnato perfettamente dal mellifluo divo Alberto Sordi. La grande città tentacolare come labirinto che allontana le persone ritorna dunque dal passato cinematografico ma, se in questo caso la città è New York e il regista è Woody Allen, allora la metropoli non può essere soltanto perdizione ma anche fascino d’altri tempi e bellezza, recuperati proprio dal giovane Gatsby, il quale non può che credere costantemente nella luce verde, nel futuro orgastico che anno dopo anno si ritira davanti a noi. Ieri c’è sfuggito, ma non importa: domani correremo più forte, allungheremo di più le braccia … e un bel mattino… Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.
Un giorno di pioggia a New York, impreziosito oltre che dalla fotografia di Storaro anche dalle scenografie di Santo Loquasto, diventa così un ottimistico atto d’amore di Allen non solo nei confronti della sua città, ma anche verso un ideale mondo di cultura e bellezza che unico può sorreggere l’uomo nella scoscesa e infida complessità del reale. Torna dunque uno dei temi più cari all’autore newyorchese e cioè quello scollamento tra ideale e reale, o tra fantasia e mondo concreto, che da sempre provoca sofferenza nei suoi personaggi e, aggiungiamo, anche in tutto il genere umano. Questa volta però la dicotomia si risolve senza troppi drammi, con un’apertura sul futuro inedita per un Allen che, da Crimini e misfatti (1989) a Match point (2005) – per citarne solo due della sterminata filmografia significativi da questo punto di vista– ci ha spesso abituati a un pessimismo cosmico senza vie d’uscita, seppur condito di sapiente ironia. Va detto comunque che l’ideale da raggiungere del giovane Gatsby, protagonista del film, è certamente più a portata di mano per chi come lui appartiene a una classe privilegiata.
Un giorno di pioggia a New York recupera egregiamente tematiche e cifre stilistiche care ad Allen, inoltre non mancano alcune battute che rispolverano la sua proverbiale sagacia. Tra le opere dell’ultimo periodo, spicca sicuramente per freschezza e godibilità. Nulla di paragonabile ai suoi capolavori ovviamente, ma resta un’opera assolutamente gradevole che ci riconcilia piacevolmente con il regista dopo alcune prove più sbiadite.
Aggiungiamo un plauso alla Lucky Red che ha deciso di distribuire questo film, fermo dal 2018, che negli Stati Uniti nessuno potrà vedere – con una perdita milionaria da parte di Amazon che è venuta meno al suo contratto di distribuzione – a causa del nefasto clima da caccia alle streghe che si è instaurato nel sempre più ipocrita sistema hollywoodiano. Così come ipocrite e opportunistiche sono le prese di distanza dei giovani divi Chalamet e Fanning, a cavalcare l’ostracismo dei media americani. Jude Law invece non ha rinnegato la collaborazione con Allen ma, anzi, ne ha preso le difese contro la gogna mediatica a cui è stato sottoposto. La classe dell’attore inglese non è acqua.