Nel 1979, per la prima volta in onda, un documentario su un processo di stupro sconvolse l’immaginario degli italiani, dimostrando come quella della violenza sulle donne fosse una questione molto lontana dalla sua risoluzione. Era un periodo di grandi cambiamenti per l’Italia, travolta positivamente dalla conquista dei diritti civili, con i movimenti femministi che avevano ottenuto il divorzio e tentavano di legalizzare l’aborto. E quello della violenza di genere rappresentava un’altra urgente questione da affrontare.
L’anno precedente si era tenuto un convegno sui diritti nella Casa delle Donne a Roma e ne era emerso un particolare e tragico aspetto della violenza: era una pratica comune in tutto il mondo tentare, durante i processi per stupro, di trasformare la vittima in imputata. Il sistema di cui si parlava, indubbiamente applicato ancora oggi, metteva in moto un meccanismo di denigrazione e accuse nei confronti delle donne che denunciavano molestie sessuali, facendole apparire come colpevoli e istigatrici della loro stessa violenza. Questo malsano meccanismo, che anche ai giorni nostri appare tristemente familiare, convinse il Convegno a realizzare un documentario, che rivelasse agli italiani la verità dei processi di stupro. Il video, girato nel tribunale di Latina, dimostrò le ideologie sessiste dietro le quali gli stupratori si rifugiavano sistematicamente per evitare le condanne.
La vittima del famigerato Processo per stupro, una giovane di 18 anni, si era recata a casa di un conoscente per un colloquio di lavoro ed era invece finita nelle grinfie di quattro uomini che l’avevano stuprata. Durante il processo, però, la difesa si trasformò in accusa, un’accusa in cui gli avvocati sostennero che era a causa dei comportamenti della ragazza, troppo liberali e trasgressivi, che la violenza era stata consumata. La situazione degenerò a tal punto che l’avvocato della giovane dovette ricordare che il suo ruolo non era quello di parte difensiva, ma di legale dell’accusa che imputava ai quattro uomini una violenza carnale. Ma la più grave delle dichiarazioni degli avvocati degli imputati riguardò l’arringa finale, durante la quale si perpetrò il tentativo di convincere che nella società contemporanea fosse la donna stessa, con la sua lotta alla parità, a istigare la violenza da parte degli uomini.
Che cosa avete voluto? La parità dei diritti. Avete cominciato a scimmiottare l’uomo. Voi portavate la veste, perché avete voluto mettere i pantaloni? Avete cominciato con il dire: «Abbiamo parità di diritto, perché io alle 9 di sera debbo stare a casa, mentre mio marito, il mio fidanzato, mio cugino, mio fratello, mio nonno, mio bisnonno vanno in giro?». Vi siete messe voi in questa situazione. E allora ognuno purtroppo raccoglie i frutti che ha seminato. Se questa ragazza si fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente.
Insomma, come si evince, la lotta ai diritti a lungo negati – e mai del tutto ottenuti – finì per rivelarsi un errore madornale per una società maschilista che non solo non accettava la parità, ma la trovava anche una scusa valida per violare i diritti, le libertà e il corpo altrui. La strumentalizzazione di un ideale di donna angelo che protegge il focolare – che pure in precedenza non aveva certamente prevenuto le violenze – in contrapposizione alla trasgressiva e mascolina donna moderna con diritti che non le spettano, mirava a creare empatia più per i carnefici che per le vittime. Tutti questi aspetti, che sconvolsero l’Italia del ’79, non rappresentano una novità per l’Italia di quarant’anni dopo, che è ancora alla prese – insieme al resto del mondo – con la colpevolizzazione di chi subisce lo stupro, crimine che viene in ogni caso sottovalutato e scarsamente condannato.
Non è solo il sentito dire a parlar chiaro o le notizie che ogni tanto animano la cronaca. Sono i numeri a fornire un limpido quadro della situazione. Secondo le stime statistiche dell’ISTAT risalenti al 2014, in Italia solo l’11% delle donne che hanno subito violenze fisiche e sessuali ha denunciato i propri aggressori. Una vittima su tre ha dichiarato di non essere stata presa sul serio dal personale sanitario a cui si è rivolta in seguito alla violenza subita e, ugualmente, solo a una su tre è stato consigliato di denunciare l’aggressione. Nei casi di violenza sessuale le condanne penali sfiorano il 64% e per le violenze di gruppo l’azione penale raggiunge il 41.6%.
Cosa sia effettivamente cambiato, da quarant’anni a questa parte, probabilmente è ben poco. Gli episodi, in generale, sembrano diminuiti e sembrano leggermente aumentate le condanne per quanto riguarda le violenze di genere. Ma i numeri delle violenze gravi, come stupri e femminicidi, sono pressoché gli stessi. E non solo. Nonostante la conquista formale dei diritti civili e la tanto agognata parità, i casi di violenza sessuale sono ancora discussi nello stesso modo di allora, con la colpevolizzazione delle vittime, con domande atte a scavare nelle loro vite per trovare un particolare che possa aver istigato l’aggressore. Come se un atteggiamento, l’aspetto o il modo di vestire potessero rappresentare un’attenuante, se non addirittura una valida scusa, per violare il corpo di un altro essere umano. Come se una rapina a una gioielleria senza antifurti annullasse la condanna o come se l’esistenza di un movente giustificasse un omicidio abbastanza da assolvere l’omicida.
E mentre si continua a discutere sul ruolo della vittima all’interno della sua stessa violenza, in Italia il 5.3% della popolazione femminile tra i 16 e i 70 anni è stata vittima di stupro. Ma se una cifra come 5% può sembrare irrisoria, sia ben chiaro che essa rappresenta 652mila donne sulle quali lo stupro è stato perpetrato e 746mila sulle quali il tentativo c’è stato ma non è andato a buon fine. Sono migliaia, migliaia di donne che oggi vivono nel nostro Paese, che abitano nel nostro condominio o che fanno il nostro stesso lavoro, donne di tutte le età e di tutte le estrazioni, a cui è stato calpestato il secolare diritto di disporre del proprio corpo per l’ingiustificato, animalesco e patriarcale impulso altrui. E se ancora non convince la gravità di questa tragica situazione, è bene notare che nell’arco del 2016 il sistema informativo del Ministero dell’Interno ha registrato 4046 reati di violenza sessuale e solo 400 omicidi.
Quel Paese nel quale la violenza quasi non esiste e un caso di omicidio conquista la cronaca per la sua unicità, quel pacifico Paese intanto diventa il panorama della carneficina di migliaia di donne, che soffrono per un crimine altrettanto grave e che avviene dieci volte più spesso per il quale, però, non si combatte neanche lontanamente abbastanza.
Immagine in copertina: Tina Lagostena Bassi, l’avvocato della vittima, ripresa dalle telecamere durante il processo