Il nostro viaggio tra alcuni connazionali all’estero continua. Dopo il prezioso contributo del Prof. Giovanni de Simone sul tema emigrazione siamo andati a San Francisco, Miami, Ibiza, Cambridge e ora a Oldenburg in Germania.
Ad arricchire questo ciclo di interviste è oggi Elia Daniele, laurea in Ingegneria Aerospaziale e Astronautica con il massimo dei voti e lode alla Federico II di Napoli, che di recente l’ARWU – Academic Ranking of World Universities –, una delle tre classifiche più autorevoli al mondo per valutare la qualità degli atenei del pianeta elaborata da un’università di Shangai, ha classificato come primo in Italia e secondo in Europa perché il 95% degli allievi nel giro di tre anni trova una collocazione professionale.
Elia Daniele è tra i migliori studenti dell’università partenopea che dopo una brevissima esperienza a Napoli si è trasferito in Germania, a Oldenburg, dove lavora in uno dei primi cinque centri di ricerca al mondo per l’energia eolica.
Come è avvenuto il tuo trasferimento in Germania?
«Per la classica commistione di opportunità, necessità, volontà. Dopo la laurea magistrale nel 2009, decisi di continuare il mio percorso al Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale della Federico II con una borsa di dottorato a cui cominciai a lavorare dal 2010. Negli anni della formazione universitaria avevo mancato la possibilità di un periodo all’estero, sia nell’ambito dell’Erasmus che altrove. Desiderando colmare questa mancanza, iniziai a cercare in rete un istituto che potesse ospitarmi per un breve periodo fuori sede durante il mio dottorato. Dopo un veloce scambio di mail si materializzò la possibilità di un soggiorno nell’inverno 2011-2012 presso lo stesso istituto e dipartimento dove lavoro attualmente. Quell’esperienza di indipendenza in un contesto estremamente internazionale e dinamico mi piacque molto. Tanto che al termine del dottorato decisi di inviare una copia della mia tesi ai colleghi in Germania. Poco tempo dopo ricevetti l’invito a candidarmi per una posizione di ricercatore per tre anni, su un progetto finanziato dal ministero dell’energia tedesco. Avevo in tasca un contratto di un anno come assegnista di ricerca a Napoli, ma tanti dei miei colleghi di studi avevano già lasciato da tempo la città e molti di loro l’Italia. Non si trattava quindi di una scelta bizzarra, quella di trasferirsi a Oldenburg e unirmi al Fraunhofer IWES. In termini professionali, ho avuto la sensazione di muovermi dalle quinte al palco di un teatro. E oggi lavoro per uno dei primi cinque centri di ricerca mondiali per l’energia eolica».
Da circa sei anni lavori come ricercatore presso il dipartimento di aerodinamica, CFD e dinamica stocastica dell’istituto per i sistemi energetici eolici della società Fraunhofer. Nello specifico, ti occupi di aerodinamica applicata alle turbine eoliche, in cosa consiste?
«Il lavoro di ricerca è incentrato sulla determinazione della configurazione ottimale per la conduzione di simulazioni aerodinamiche complesse, capaci di determinare gli effetti del carattere turbolento, stocastico del vento sulle prestazioni dei rotori eolici in condizioni non ordinarie. Infatti, proprio in tali situazioni i più comuni metodi di stima dei carichi sulle pale dimostrano i limiti delle loro formulazioni approssimate. Per questo motivo l’utilizzo di complesse simulazioni numeriche per l’aerodinamica (in gergo CFD, Computational Fluid Dynamics) permette di migliorare l’approssimazione dei modelli rapidi di stima dei carichi. In questo modo si arriva a determinare più accuratamente i requisiti strutturali, riducendo il sempre necessario sovradimensionamento per opere civili di grande impatto come una turbina eolica, che a oggi supera i 200 metri di diametro, ovvero più di due campi da calcio. Per l’industria manifatturiera ciò comporta una riduzione dei costi di produzione, mentre per gli operatori dei parchi eolici si traduce in una migliore capacità di controllo della produzione di energia. Pur lavorando, di fatto, su un aspetto molto specifico, contribuiamo con la nostra ricerca a rendere l’energia eolica più economica e maggiormente controllabile, per una più gestibile integrazione nella rete di fornitura elettrica. Quest’ultimo è un aspetto fondamentale nell’ambito della transizione verso l’utilizzo minimo dei combustibili fossili, aspetto cruciale per evitare la catastrofe climatica».
Nato a Napoli e cresciuto a Giugliano per ventinove anni, ora sei a Oldenburg, città della Bassa Sassonia, dove hai collaborato a oltre dieci progetti di ricerca insegnando all’Università per circa un anno. Decisamente un impegno senza sosta in un periodo relativamente breve. Come vivi la realtà della città al di là del lavoro? Ritieni di esserti inserito appieno sia nell’ambito professionale che nel contesto cittadino?
«L’inserimento a Oldenburg è stato un processo graduale. Nei primi anni mi trovavo con un piede appena appoggiato in Germania e con un altro sollevato di poco dall’Italia. Il lavoro riempiva quasi ogni spazio, e i ritorni a casa per rivedere familiari e amici erano molto frequenti. Col passare del tempo capii che quella forma di equilibrio era instabile: era ora di piantare entrambi i piedi da questo lato delle Alpi e impegnarsi a costruire soprattutto il futuro. A quel punto sono entrato decisamente con maggiore profondità in contatto con la cultura tedesca, soprattutto attraverso dei corsi di lingua avanzati che mi hanno permesso di muovermi con migliore disinvoltura nella sfera lavorativa, ritagliandomi un ruolo di responsabilità anche dal punto di vista organizzativo. La passione per il calcio che mi porto dietro dall’infanzia, inoltre, ha trovato una coniugazione da adulto in una polisportiva amatoriale di quartiere della quale faccio parte dal 2015. Questo è il luogo dove più di altri osservo le molteplici sfaccettature di una società complessa come quella tedesca. Condivido insieme a persone di diversa estrazione sociale e formazione sudore e corse sotto la pioggia e il freddo. È la mia occasione per uscire da quella bolla generata dai tanti miei colleghi che, come me, fanno parte della categoria degli anywhere, capaci di vivere quasi ovunque nel mondo con piccolissimo sforzo, perché sempre ben accetti ed estremamente richiesti. Questa circostanza mi ha permesso di intravedere e conoscere il chiaroscuro di un Paese che, seppur diversamente dal nostro, soffre di un malessere latente che chi amministra o non capisce o non sa gestire. Ma mi ha anche fatto capire come sia diffusa la capacità di agire in prima persona e assumersi responsabilità senza attendere indicazioni dall’alto».
Mi accennavi di parlare correntemente l’inglese e il tedesco e di districarti abbastanza bene con il francese, lo spagnolo e il persiano. Come mai questo buon rapporto con le principali lingue e in particolare con il persiano?
«Non saprei dare una motivazione precisa. Probabilmente ha aiutato cominciare alle medie con il bilinguismo inglese-francese. Quelle poche ore in più non mi hanno mai particolarmente pesato, anzi, mi piaceva allora come oggi rintracciare i collegamenti tra il linguaggio, la cultura, e più tardi la coscienza di un Paese. Per lo spagnolo è bastato chiacchierare a lungo con i vari colleghi iberici che si sono avvicendati in istituto, ripescando a fondo nelle contaminazioni napoletane risalenti alla dominazione aragonese del passato: per le cose fondamentali ci si capisce facilmente. Con il persiano il discorso è più particolare e riguarda soprattutto il futuro. Nel 2016 sono stato per la prima volta in Iran, prendendo al volo la possibilità di unirmi ad alcuni colleghi che rientravano lì per le loro vacanze in visita alle rispettive famiglie. Insieme ad altri amici tedeschi siamo stati immersi per qualche settimana in una straordinaria ospitalità (al limite dello stalking) e affabilità, condite da arte, cucina e paesaggi memorabili. In quei giorni ho costruito la base minima per salutare e ringraziare chi mi invitava a pranzo o aiutava con la strada. Al ritorno questa raccolta di storie ha affascinato molto una mia collega iraniana dell’epoca, tanto da convincerla a sposarmi l’anno scorso. Una lingua, quella farsi, il cui fascino sembra sgorgare dalla contraddizione di essere una lingua indo-europea scritta in caratteri arabi propri degli idiomi semitici. Oggi imparare a passo lento il persiano è il mio modo di avvicinarmi e assorbire la cultura millenaria che pervade le tradizioni della mia nuova famiglia».
Ritieni di proseguire la tua carriera in Germania o come quasi tutti i tuoi colleghi che ho intervistato miri a realizzare il sogno americano?
«Mi permetto di dissentire dalla maggioranza. Gli Stati Uniti d’America non hanno mai rappresentato né temo possano rappresentare in futuro una destinazione per me. Troppa è la distanza che mi separa, culturalmente e socialmente, da quel Paese. Capisco chi trova nell’opulenza delle dorate possibilità per i “meritevoli” uno stimolo importante. Tuttavia, rimane per me deplorevole il trattamento riservato ai “sommersi”. Non credendo nel singolo, piuttosto nella comunità, non riesco a comprendere il fascino dello sfrenato successo individuale. Ed essendo un amante della storia, ne ho letta abbastanza da capire che difficilmente si può lasciare indossare a una sola nazione un abito morale così brillante da illuminare per tutti gli altri la via distinguendo il bene dal male. Si rischia di cadere dall’eccesso di arbitrio a quello di ridicolo in poco tempo, come da qualche tempo ci tocca assistere nei notiziari. Resto convinto che l’Europa sia la dimora ideale per le mie aspirazioni. La sua storia e il suo presente non ti nascondono il conto di una diversità difficile da amalgamare. Eppure, il successo del progetto di Unione iniziato molti decenni fa resta per me avvincente e nella sua complessità ineguagliato. E sarei molto felice se domani potessimo lasciarci indietro i concetti politici di Italia e Germania e cominciare piuttosto a mescolarne quelli culturali e rifondarne un unicum sociale».
Chiedo anche a te, come fatto con altri: se ricevessi una telefonata dall’Italia per un’offerta di lavoro, cosa faresti?
«Ascolterei con curiosità, pur non essendo per questo interessato. Non discuto la capacità di offrire posizioni lavorative interessanti, ma avendo una famiglia ben integrata qui in Germania sono altre le mie preoccupazioni. Non ritengo nel breve e medio termine realizzabile una serie di necessari cambiamenti al panorama italiano che non ha a che fare direttamente con la mia situazione individuale, quanto piuttosto quella generale della nostra comunità, tale da spingermi a riconsiderare la scelta presa sei anni fa. Riscontro ogni volta che rientro a casa un incedere lento, incerto se non maldestro, sul percorso di sviluppo che abbiamo davanti. Col tempo ho anche riconsiderato il peso delle accuse che negli anni nella mia cerchia di amicizie venivano rivolte a chi, come me, aveva abbandonato la barca in difficoltà. Non ho rintracciato nella maggior parte di quelli che sono rimasti, per scelta o necessità, nessun particolare impegno sociale tendente a sbloccare questa o l’altra situazione di impasse esterna della sfera individuale. Di fatto, ognuno ha quasi sempre solo il modo di coniugare il tempo a disposizione tra lavori sempre più esigenti con la famiglia e gli affetti. Non si capisce, quindi, quale possa essere stato il manchevole contributo degli emigrati per lavoro con elevata formazione. In questi anni, credo per la inevitabilità delle leggi di Murphy, noto che delle crepe salgono alla superficie anche in quello che sembrava un sano monolite, come la Germania. Confermo la mia scelta presa tempo addietro, tenendo sempre bene a mente a cosa ho rinunciato, cercando di superare le sfide quotidiane che attendono me e la mia famiglia».