Lo avevamo raccontato appena lo scorso 29 aprile, la Spagna era chiamata al voto per il rinnovo del Parlamento per la terza volta in quattro anni. La situazione che ne era uscita, però, non garantiva la stabilità di cui il principale Paese della penisola iberica aveva bisogno, a maggior ragione a seguito dei violenti scossoni a cui aveva dovuto far fronte, traducibili nelle rimostranze dei gruppi indipendentisti della Catalogna. Ed è proprio per il mancato accordo tra il partito socialista di Pedro Sánchez e gli estremisti che vogliono Barcellona capitale di uno Stato finalmente indipendente che la maggioranza non si è legittimata e, dunque, i cittadini spagnoli sono stati convocati alle urne ancora una volta, sei mesi soltanto dallo scorso appuntamento elettorale.
Il PSOE del Premier uscente perde tre seggi e la propria personale scommessa con il popolo rosso. A Sánchez non riesce, infatti, l’attacco mosso alle altre forze di sinistra del Parlamento, a suo sentire non necessarie per la formazione dell’esecutivo. Invece, i voti rosicchiati a Podemos – che lascia alle forze d’opposizione ben 7 seggi – premiano il Partito Popolare del nemico Pablo Casado, la destra un tempo considerata post-franchista e ora moderata, con la quale si rende, allo stato attuale, imprescindibile una mediazione.
Appare improbabile, invero, che il partito socialista trovi una maggioranza chiedendo la fiducia di indipendentisti catalani, autonomisti baschi e nazionalisti navarrini, se non a rischio di invitare ai seggi il popolo ispanico alla prossima tornata utile. Ciò che ne verrebbe fuori – in questo improbabile caso – sarebbe un guazzabuglio di idee spesso in contrasto, una mal sopportazione già dimostrata con la rinuncia da parte di Sánchez e Albert Rivera, il fondatore di Ciudadanos, a formare un governo con il risultato delle scorse elezioni.
Il movimento centrista, in testa a tutti i sondaggi solo due anni fa, è infatti crollato fino al 6% delle preferenze, pagando proprio il no perentorio sventolato a Pedro Sánchez per la creazione dell’esecutivo. Una mossa suicida che non ha premiato in questa nuova chiamata al voto.
Va da sé che il PSOE sarà costretto a rivolgersi al PP – 15 seggi in più – per formare una grande coalizione di centro moderata, una situazione la cui inefficacia è già stata certificata dalle esperienze negative avute luogo in Germania e, manco a dirlo, in Italia, con i due principali partiti della scena politica – il PD e Forza Italia – che assieme hanno governato il Paese mossi dai fili dell’austerity europea e, dunque, nel malcontento generale che ha spianato la strada al populismo e alle destre.
Situazione non dissimile a quella spagnola, dove il narcisismo delle forze di maggioranza della sinistra ha indebolito la componente democratica del Parlamento a favore dell’ultradestra di Vox, passata da 24 a 52 poltrone, e che già guarda al futuro con le idee ben chiare, espresse dalle parole del leader Santiago Abascal: «Aspettiamo anche gli amici che votavano socialista».
La propaganda della paura, il fascino del ritorno al sovranismo più cieco ha fatto, dunque, breccia anche in Spagna – scrivevamo appena sei mesi fa – seppure con un riverbero ancora sotto controllo. È bastato veder litigare i principali esponenti che avrebbero dovuto garantire alla Spagna stabilità, politiche per il lavoro, crescita e sviluppo, anziché pensare di rimpinzare ancora un po’ i propri consensi, per rivolgersi alla rigida propaganda fascista, i cui toni diretti, decisi, persino violenti, appaiono agli occhi di un elettorato sfiduciato e spaesato come una garanzia di attenzione alle istanze dal basso.
Dunque, il bipolarismo si attesta come unica strada percorribile dalla Spagna e dai suoi leader politici, una condizione di instabilità che bene non fa a un Paese già in crisi economica, sociale – con le richiesta di autonomia della Catalogna e le rimostranze in territorio marocchino di Ceuta e Melilla – in cui l’emigrazione e la disoccupazione giovanile sono piaghe difficilmente rimarginabili.
«Dobbiamo creare un governo stabile» ha dichiarato ieri Sánchez, proclamandosi come vincitore delle elezioni, pur consapevole dell’occasione sprecata appena sei mesi or sono, e ora a rischio di veder traballare la propria leadership. L’auspicio per la penisola iberica e l’Europa tutta è che, stavolta, sia quella buona. I presupposti, purtroppo, non ispirano grandi speranze.