La macchina da presa percorre i corridoi di una casa per anziani: dietro ogni angolo ci aspettiamo che compaia Robert De Niro, ormai incanutito, che comincia a raccontare seduto da qualche parte. E, infatti, sarà così, ma solo alla fine di questo lungo travelling di una cinepresa che sembra indugiare in alcune stanze per poi sviarci e portarci in altre. Al termine del percorso visivo nella casa di riposo, arriviamo dunque al personaggio che costituirà il livello enunciativo principale della narrazione di tutto il film. Sembrerebbe forse un tempo eccessivo, ma quelle camere, quel lungo tragitto, sono un tuffo nella memoria sia personale, riferibile alla carriera di Scorsese, sia collettiva, cioè afferente alla storia del cinema in generale e al genere gangsteristico che ha contribuito a costruirne i pilastri. Percorrere quei corridoi vuol dire per il regista – e anche per noi che lo seguiamo da anni – entrare nelle stanze della sua e della nostra memoria e farci condurre per mano in questa cavalcata attraverso la storia d’America del secondo dopoguerra e attraverso la storia del suo cinema.
La trama è basata sul libro-inchiesta di Charles Brandt che ha intervistato per 12 anni Frank Sheeran (interpretato da Robert De Niro), reduce di guerra di origini irlandesi e autotrasportatore alla fine degli anni Quaranta. Il nostro Frank entra casualmente in contatto con Russell Bufalino (Joe Pesci), boss della mafia che intrattiene rapporti economici e politici con Jimmy Hoffa (Al Pacino), leader del famoso Teamster, il sindacato degli autotrasportatori che a quel tempo dettava legge negli Stati Uniti, le cui favolose casse pensionistiche – si parla di miliardi di dollari – foraggiavano gli investimenti mafiosi nei casinò di Las Vegas e in numerosi altri affari tramite prestiti milionari.
Frank diviene così un sicario al soldo di Russell, che gli farà da mentore e gli presenterà il vulcanico Hoffa, col quale l’irlandese diverrà amico e per cui svolgerà molteplici illeciti. Sheeran racconta scherzosamente che la sua professione veniva definita imbianchino, cioè colui che dipinge le case, col sangue evidentemente. Da qui il titolo originale del libro del 2004, I heard you paint houses, ovvero Ho sentito che dipingi case. Non a caso, sarà proprio questa una delle prime domande che Jimmy Hoffa rivolgerà a Frank al telefono.
Detta così potrebbe sembrare l’ennesimo mafia-movie se non fosse che Scorsese lo utilizza per accompagnarci in un grande affresco storico e al tempo stesso intimo con cui non solo ricapitola il suo lavoro e il fatale intreccio tra la delinquenza organizzata e la politica degli Stati Uniti, ma ribadisce anche una modalità di fare cinema classico e senza compromessi che oggi sta scomparendo perché sempre più difficile da proporre.
In merito al linguaggio visivo, sebbene siano presenti alcuni guizzi, per esempio i tipici dolly-zoom con i quali ci avviciniamo improvvisamente ai protagonisti di una scena, diventati ormai cifra stilistica di tanto cinema scorsesiano, per il resto la regia si attiene a un linguaggio volutamente più dimesso – si fa per dire ovviamente –, in cui si predilige l’attenzione ai dialoghi e alla psicologia dei personaggi. Ecco, quindi, il prevalere di primi piani e di semplici campi e controcampi per passare da un interlocutore a un altro. Non c’è il ritmo scoppiettante e indiavolato, dal montaggio convulso, che avevano Quei bravi ragazzi (1990) o Casino (1995) – quest’ultimo già in forma diversa –, il film ha l’andamento dolente di chi vuol prendersi i suoi tempi per raccontare l’intimità di personaggi che sono diventati, volenti o nolenti, ingranaggi della Storia.
Storia che passa attraverso l’elezione di John Kennedy appoggiata dalla mafia, che si aspettava dal nuovo Presidente la riconquista della Cuba castrista. Prima della rivoluzione, infatti, i boss guadagnavano milioni con i casinò e gli alberghi della bellissima isola che si trova di fronte alla Florida. Ma Kennedy non li accontentò, negando la copertura aerea alle forze d’invasione – formate da esuli cubani organizzati e armati dai servizi segreti americani – che furono spazzate via nella Baia dei Porci. Non solo, Jack sguinzagliò il fratello Bobby che, nelle vesti di procuratore generale, cominciò a perseguire il sindacato di Jimmy Hoffa, la gallina dalle uova d’oro della criminalità organizzata. Con Kennedy sappiamo come andò, anche se forse non sapremo mai i dettagli. Invece Hoffa proseguì la sua corsa, alternandola anche con la galera, finché non successe qualcosa per cui scomparve misteriosamente nel 1975.
In tali eventi, si inserisce la storia di Frank e dei suoi due mentori/amici, Bufalino e Hoffa. È qui che Scorsese riesce a tenere perfettamente le redini di due binari paralleli, facendoci penetrare tra le maglie della storia ufficiale e mostrandoci il lato più intimo e vero delle persone coinvolte. A partire dal malinconico Frank che, anche quando ammazza, lo fa senza clamore, in modo veloce e anti-spettacolare, così come anti-spettacolare vuole essere The Irishman. Se nei Bravi ragazzi e in Casino la violenza era esibita, qui viene trattenuta e mostrata lo stretto necessario, con gesti rapidi e puliti. Sono passati quasi trent’anni e anche la sensibilità di Scorsese si è evoluta: all’attenzione da entomologo con la quale esaminava il microcosmo dei mafiosi italoamericani, si aggiunge una pietas che non deve far pensare a una qualsivoglia giustificazione di azioni terribili, bensì a uno sguardo che investe di emozioni coloro che si muovono nei retroscena della Storia.
Non è un caso che un personaggio in particolare, Peggy, la figlia di Frank interpretata da Anna Paquin, rivestirà un’importanza narrativa fondamentale, nonostante pronunci poche battute. Il suo timore nei confronti del padre che ha visto commettere azioni violente davanti ai suoi occhi, nonché nei confronti dello zio Russell, diventerà negli anni un volto di perenne rimprovero nei confronti di Frank. Anzi fungerà da vera e propria coscienza o, se vogliamo, da Super-io che, con il suo sguardo accusatore gli ricorderà sempre i suoi peccati finché non li porterà con sé nella tomba.
Ecco che, soprattutto nella parte finale del film, prevale quella tensione spirituale che ha sempre caratterizzato la poetica di Scorsese. Domenica in chiesa e Lunedì all’inferno, recitava il sottotitolo di Mean Streets (1973), opera fondante dell’autore italoamericano in cui Harvey Keitel e Bob De Niro si dibattevano nel sottobosco criminale di Little Italy. La dialettica tra peccato e redenzione ha attraversato tutta la filmografia del cineasta e ne ha rappresentato l’ossatura morale. Tale dialettica penetra nelle vite di personaggi che devono affrontare le proprie contraddizioni e ne escono a volte vinti (Toro scatenato 1980), a volte purificati (L’ultima tentazione di Cristo 1988, Silence 2017), ma mai conciliati. The Irishman è l’esame di coscienza di un’intera nazione che trova nelle figure di Frank, Russell e Jimmy i Re Magi che offrono in dono a noi spettatori il cuore sanguinante di un autore che riesce a infondere tensione spirituale anche alle vicende più prosaiche.
Non dimentichiamo inoltre che The Irishman è una storica rimpatriata tra Scorsese e i suoi maggiori attori-feticcio, nonché mostri sacri della recitazione mondiale: De Niro, Pesci e Keitel (quest’ultimo nel ruolo minore del boss Angelo Bruno), ai quali si aggiunge Al Pacino, per la prima volta in un film del cineasta di New York. Non è un caso che in The Irishman si trovino momenti che strizzano l’occhio alle carriere di ognuno. Se per Pacino è evidente il richiamo a Scent of a woman (1993) nella scena in cui balla con la figlia di Frank, così come è evidente per De Niro il costante richiamo a molti personaggi che ha interpretato per Scorsese – aggiungiamo la citazione di Taxi driver (1976) nel momento in cui sceglie le pistole per un omicidio disponendole sul letto –, per Joe Pesci c’è invece un richiamo più sottile.
In una scena Frank deve trasportare un camion di armi in Florida, destinato ai campi di addestramento di esuli cubani. Ad attenderlo troviamo un personaggio pittoresco, un piccoletto dalle sopracciglia folte che viene definito da Russell solo per le sue preferenze omosessuali. Ebbene quell’uomo non è altri che David Ferrie, equivoco personaggio affiliato ai servizi segreti, molto probabilmente coinvolto nell’omicidio Kennedy e morto in circostanze misteriose, magistralmente interpretato proprio da Joe Pesci nel film di Oliver Stone del 1991 JFK – un caso ancora aperto.
Non ultima, la questione del ringiovanimento. Se da un lato è strabiliante l’operazione digitale, detta de-aging, con cui hanno ringiovanito i tratti degli attori per le scene ambientate negli anni Cinquanta/Sessanta, dall’altro è molto straniante veder recitare una versione giovane di De Niro che però non è il De Niro di trenta/quarant’anni fa che conosciamo bene grazie a film come Il cacciatore o C’era una volta in America, ma è un De Niro che non è mai esistito, l’elaborazione digitale del suo volto attuale, algoritmicamente realizzata secondo parametri comunque non naturali. Per cui, ribadiamo, l’effetto finale è piuttosto straniante e non così perfetto come vorrebbero far passare. Anche gli occhi sono di un blu cyborg, non come quelli naturali dell’attore. Attendiamo comunque curiosi l’evoluzione di questa tecnologia.
In ambito interpretazioni, risulta evidente come quelle di De Niro e Joe Pesci siano decisamente sotto le righe (under-statement), giocate su piccole sfumature che si intravedono negli sguardi, mentre la performance di Pacino è di segno totalmente opposto, istrionica ed esagitata (over-acting) come richiede giustamente il personaggio. Entrambi i modi interpretativi sono ovviamente congrui ai protagonisti, per cui le preferenze per l’una o per l’altra diventano puramente soggettive.
In conclusione, The Irishman, grazie anche ai mezzi produttivi messi a disposizione da Netflix che ha lasciato carta bianca al cineasta newyorchese, ci riporta ai fasti della generazione della New Hollywood degli anni Settanta, quella dei cosiddetti Movie brats – i ragazzacci, o monelli del cinema – in cui autori cinefili come appunto Scorsese, Coppola, Friedkin, Lucas, Spielberg, Penn, Milius, in una tensione dialettica molto produttiva con gli studios dell’epoca, riuscivano a imporre una visione personale e a proporla come grimaldello per interpretare il mondo contemporaneo.
Lo stesso Scorsese, in una recente intervista al New York Times ha dichiarato: «Per me, e per i cineasti che amo e rispetto, per gli amici che hanno iniziato a fare film nello stesso periodo in cui l’ho fatto io, il cinema aveva a che fare con la rivelazione: con una rivelazione estetica, emotiva e spirituale. Aveva a che fare con i personaggi: con la complessità delle persone e la loro natura contraddittoria e a volte paradossale, con il modo in cui si feriscono e amano l’un l’altro e su come improvvisamente si possono trovare faccia a faccia con loro stessi. Aveva a che fare con il confrontarsi sullo schermo e nella vita che drammatizzavano e interpretavano con l’inaspettato, e con l’ampliamento dell’idea di ciò che era possibile in quella forma artistica».
Prima di passare definitivamente alla piattaforma di streaming, la programmazione di The Irishman nelle sale italiane è stata prolungata fino al 21 novembre. Vi consigliamo, dunque, di non perdere assolutamente l’occasione di vedere quest’opera su grande schermo. Ah, quasi dimenticavamo: ci sarebbe anche la risibile polemica Scorsese vs. cine-comics alimentata dai media in queste ultime settimane. Vale davvero la pena parlarne? Crediamo che un film come The Irishman basti a spazzarle semplicemente via.