Sono 3126 le parole che nell’edizione 2020 del dizionario Zingarelli saranno contraddistinte da un simbolo a forma di fiore. Si tratta dei vocaboli in estinzione, ovvero di quei lemmi caduti in disuso sia nella forma scritta che in quella orale della nostra lingua, la cui stessa esistenza è in bilico sul burrone del dimenticatoio. Sfogliando l’opera di Zanichelli potremo quindi imbatterci in un fiorellino accanto a termini aulici, la cui origine deriva da un prezioso retaggio culturale, come laconico (dal nome della regione greca Laconia dove abitavano gli spartani, notoriamente parchi nell’esprimersi), luculliano (dal politico latino Lucullo, celebre per lo sfarzo e la sontuosità dello stile di vita) o pantagruelico (dal protagonista mangione del romanzo Gargantua et Pantagruel dello scrittore francese Rabelais), ma anche a termini insospettabilmente più diffusi come futile, a quanto pare ormai futile, e desueto, a quanto pare ormai desueto.
Pensateci: se si trattasse di 3126 vite a rischio in balia dei flutti del mare, o intrappolate nell’antro di una caverna, non esiteremmo un istante a mobilitarci per salvarle – almeno noi esseri umani. Ma una parola che muore è una foglia decidua che si appoggia nel silenzio e nel silenzio scompare, lasciandoci altrettanto soli. E se l’italiano è universalmente riconosciuto come lingua più bella al mondo, l’ancestrale patrimonio a cui attinsero Dante, Petrarca, Leopardi, Foscolo, Manzoni e tutti gli altri illustri genitori del nostro verbo, è soprattutto in virtù della sua eclettica poliedricità, del suo sconfinato forziere lessicale che dispensa pregnanti ricchezze colme di sfumature, sensi e significati.
Ma all’inverso è altrettanto naturale che nel tempo una lingua evolva e si modifichi. Se così non fosse, staremmo ancora parlando in latino e declinando diversamente il vulnus di un irreversibile depauperamento lessicale. A suscitare preoccupazione, invece, è la tendenza che tale evoluzione ha assunto nel corso degli ultimi anni in cui, a fronte della progressiva scomparsa di parole con un proprio retroterra culturale come quelle elencate in precedenza, si fa strada una semantica della banalizzazione esplicitata da neologismi come il celebre petaloso o biciclettare, ciaone, morbidità, supercibo, titolarissimo.
Si tratta di termini di uso comune modificati attraverso l’aggiunta caleidoscopica di prefissi e suffissi, a ricalcare con inquietante precisione i meccanismi alla base della neolingua orwelliana descritta in 1984, in cui le parole diminuivano di anno in anno sostituite da composti ibridi oppure accorciate in sigle facilmente memorizzabili (ad esempio buono, plusbuono, arciplusbuono al posto di buono, migliore, ottimo). In questo senso, ciaone è la pietra tombale sulla ragion critica, la manifestazione palese di uno smantellamento intellettuale con fini propagandistici. Come nella neolingua di Orwell, infatti, al prosciugamento della varietà lessicale corrisponde un inaridimento delle facoltà di pensiero: lo scopo ultimo è quello di privare le masse della possibilità di elaborare concetti eliminando del tutto la loro espressione verbale. In un futuro non tanto remoto, quindi, potrebbe diventare impossibile organizzare una ribellione semplicemente perché il termine ribellione non esisterà più.
L’altra grande direttrice lungo la quale si muove l’italiano è quella della contaminazione anglofona. Sempre più spesso sentiamo utilizzare parole mutuate dall’inglese al posto dei loro corrispettivi italiani. Se in alcuni casi ciò può apparire del tutto ragionevole, giacché non ci sogneremmo mai di dire calcolatore elettronico al posto di computer o cellulare intelligente al posto di smartphone, in altri appare una vera e propria forzatura dettata da mode e da un latente desiderio di omologazione di classe. L’abuso di inglesismi si rinviene infatti soprattutto nel campo politico e finanziario, dove ci si incontra ai meeting con gli stakeholder, la work routine è stabilita da planning e le human resources si occupano di profilare le job opportunities, oppure sui social network, dove ci si tagga nelle stories e si flirta con le app di dating.
Questa degenerazione va arrestata e non certo per sovranismo linguistico, ma per una limpida constatazione sociologica: la spinta verso l’omogeneizzazione risponde a una precisa necessità di coercizione intellettuale delle classi borghesi dominanti sulle classi popolari sottoposte. Non è un caso che sia il popolo a custodire quell’immenso, complesso e multiforme universo di varietà dialettali che rappresentano l’essenza più autentica e tradizionale dell’italiano moderno. Nel dialetto la lingua si ossigena e respira, si rimpasta e rigenera, sviluppa nuovi spazi di espressione e mantiene vivo il fermento culturale che la nutre. Nella distopia orwelliana tale era l’archelingua parlata dai prolet, un linguaggio destinato, nelle intenzioni del Partito, a essere progressivamente sostituito dalla neolingua.
Allo stesso modo, gli influencer e i policymaker odierni attuano una “sostituzione etnica” di parole con quelle di derivazione inglese per normalizzare un modello commerciale di società in cui ogni aspetto dell’esistenza è finalizzato al consumo e al profitto, al sentirsi cool a ogni costo, e gli esseri umani diventano ingranaggi di una catena di montaggio antietica e amorale, incapaci di parlare, dunque incapaci di pensare, dunque in definitiva incapaci di immaginare uno stato di cose differente da quello attuale. Finché non diverranno coscienti della loro forza non si ribelleranno, e finché non si ribelleranno non diverranno coscienti della loro forza, scriveva il buon George. D’altronde, qualcuno sostiene che la vera rivoluzione da compiere sia quella culturale: e chissà che ribellarsi allo stillicidio delle parole e alla dittatura degli hashtag non possa davvero essere la panacea (♣) di tutti i mali.
Contributo a cura di Emanuele Tanzilli