Basta semplicemente nominarlo perché il termine burqa scateni una reazione di infinite contraddizioni sulla libertà della donna, l’oppressione religiosa e la lotta al patriarcato. Si tratta di una parola che veicola innumerevoli significati nell’immaginario collettivo occidentale, fatto un po’ di ricerca della libertà e un po’ di convinta superiorità. Ma tra la miriade di concetti che il burqa richiama alla mente non si è ancora fatto ordine e perpetrare in questo caos di significati contrastanti non permette di comprendere con chiarezza dove si ferma l’oppressione religiosa e dove inizia la prevaricazione occidentale.
Il termine burqa, nel suo significato effettivo, fa riferimento a un tipo, anzi al meno utilizzato, dell’ampia gamma di veli islamici. Nel suo significato collettivo, invece, la parola rievoca tutte le sfumature del suo genere a rappresentare l’oppressione femminile che la religione musulmana esercita agli occhi dei vicini occidentali, un’inaccettabile lesione della dignità delle donne a cui il velo integrale è imposto. Che poi il burqa, che nasconde interamente la figura femminile in modo più drastico dei suoi fratelli meno coprenti, sia imposto solo in pochissime regioni di Afghanistan e Pakistan poco importa, costituirà sempre il simbolo di una religione totalitaria che scavalca l’individualità delle donne, anche nelle più civilizzate terre del mondo.
L’uso del velo, in realtà, è una pratica ben più antica di quanto possa esserlo il Corano ed è apparso in diverse forme nella maggior parte delle civiltà che hanno animato la storia umana. Le prime tracce risalgono agli Assiri e alla Mesopotamia di 4000 anni fa. Per le civiltà antiche il velo distingueva le donne nobili dalla plebe. Anche la Penelope descritta da Omero si velava il capo ogni volta che si trovava in presenza dei suoi pretendenti. E anche nella storia della religione cristiana il velo è apparso più volte come virtuosa dimostrazione della purezza femminile.
Che fosse simbolo di verginità e pudore, o strumento per proteggere le donne dell’alta società dagli occhi sporchi e indiscreti della plebe, l’utilizzo del velo rappresentava però, in fin dei conti, un atto di sottomissione. Lo dimostrano gli antichi romani – forse l’unica civiltà in cui il velo non era destinato solo alle donne – che si coprivano la testa durante le preghiere agli dei, come atto di sottomissione dell’uomo davanti al divino. Ma più di tutti è San Paolo, nella Bibbia, a formalizzarne il significato di sottomissione femminile: Ogni donna che prega senza velo manca di rispetto al proprio capo. L’uomo è gloria di Dio e la donna è gloria dell’uomo. Per questo deve portare sulla testa il segno della sua dipendenza.
Né l’uso del velo né il suo recondito significato appaiono, dunque, d’origine o esclusiva musulmana. Eppure, nella mentalità occidentale, aleggia l’orrore del suo utilizzo a tal punto che in Paesi come Francia e Belgio il burqa è assolutamente vietato e anche in Italia ci si avvia sulla stessa strada. Pochi giorni fa, la Corte d’Appello milanese ha ritenuto opportuna la delibera della Regione che vieta l’accesso a luoghi pubblici a donne con il volto coperto dal velo. La delibera del 2015, che ne vietava l’uso per questioni di sicurezza, aveva incontrato le proteste di numerose associazioni che avevano poi portato la questione in tribunale.
A fare rumore non è tanto la decisione della Corte, che rappresenta solo l’ennesima prova della rigidità italiana nei confronti di altre culture e, soprattutto, dell’irrimediabile mancanza di elasticità nei confronti di altre religioni, pratica che non sorprende in alcun modo da parte dello Stivale. Il problema relativo alla questione nasce più che altro in vista della risonanza che la discussione sta avendo e sulla decisione che sa di mossa lungimirante nel conseguimento della parità di genere e di lotta all’arretratezza delle altre religioni. Baluardo di questa visione sono le parole di Daniela Santanchè, che in passato aveva più volte tentato di istituire leggi che vietassero l’uso del velo: «Io sto dalla parte delle donne, voglio liberarle. Il burqa non è una scelta delle donne, ma è un’imposizione del clan maschile della famiglia. Io quella di Regione Lombardia la ritengo una grande legge di libertà». Una legge di libertà perpetrata attraverso un divieto.
Che il velo rappresenti un simbolo di sottomissione è indubbio. In alcuni Paesi è stato imposto e si è lottato per impedirne l’imposizione e certamente si dovrà continuare a lottare. Copre le forme femminili perché sia solo l’uomo a cui appartiene a poterne godere e rappresenta una strumentalizzazione del corpo. Ma la sottomissione che veicola non è diversa, o più grave, da quella del velo che indossano le spose nel giorno di nozze, le donne che si recavano a messa fino a qualche decennio fa o da quello che portano le suore cattoliche. Non è diverso dal fatto che una donna non possa diventare Papa o che la stessa famiglia cristiana si basi sul patriarcale predominio del capofamiglia maschio. In fin dei conti, ogni religione è piena di riferimenti alla sottomissione femminile perché le religioni sfuggono inevitabilmente alla perfezione divina in cui i fedeli credono fermamente, e ricadono nell’imperfezione umana di chi le ha professate. E se per millenni le società sono state fatte di uomini oppressori e di donne sottomesse, anche le religioni ne assumono inevitabilmente i connotati.
Ma in luoghi emancipati, in società lontane da regimi teocratici, ognuno è libero di accettare o meno i dettami del proprio credo, è libero di interpretare le regole di Bibbia o Corano e di scegliere in che modo seguirle. E sta proprio qui la differenza tra oppressione e indipendenza, tra abuso e libertà di scelta. Sta nella possibilità, per le donne cattoliche, di credere o meno in una Chiesa che non concede loro alcuna autonomia e, per le donne musulmane, di scegliere se indossare o meno il velo, non per imposizione maschile ma per devozione religiosa. E sta negli occhi di chi guarda non cercare l’oppressione dove non c’è, finendo per soffocare, nel nome di un’ipocrita parità e di una finta superiorità, l’infinitamente prevaricato diritto alla libera scelta delle donne.