Se si pensa alla rivolta più iconica del 2019, lo skyline di Hong Kong compare con prepotenza e domina la scena. La regione amministrativa speciale della Cina è la leader indiscussa di un movimento che ha ispirato il mondo, autrice di una pagina di storia ipermoderna nella rivendicazione delle proprie libertà negate.
Le proteste avviate contro il disegno di legge sull’estradizione rappresentano ora, a sette mesi di distanza, un simbolo internazionale di lotta contro i tentativi illegittimi di ingerenza. Così il porto profumato che affaccia sul Mar Cinese Meridionale continua a non tollerare le limitazioni imposte da Pechino, le sue censure e il suo terrorismo psicologico. È una protesta di giovani e fatta per i giovani, i veri protagonisti degli eventi futuri che vedranno, in un fatale 2047, l’assimilazione della città alla Repubblica cinese. Ma al di là dei meno adulti, le strade di Hong Kong coinvolgono anche un gruppo eterogeneo preoccupato dalle conseguenze imprenditoriali ed economiche dell’annessione.
La rivolta unisce coloro che reclamano la propria identità culturale, contro una Cina che nella sua storia si è spesso macchiata di brutalità e condanne di chi è etnicamente diverso. Grazie a Hong Kong è stata fatta luce sulla censura del governo di Pechino, sull’occultamento dei media e nella cronaca internazionale. Diversi giornali della stessa città dipingono i protestanti come sovvertitori e violenti, non indagando sulle ragioni sociali e storiche che hanno portato a mobilitazioni di massa.
Hong Kong è, a oggi, patria di una cultura ibrida e non classificabile, figlia del mondo anglosassone e autonoma – sebbene non del tutto indipendente. La legge sull’estradizione altro non è che la causa scatenante, in un’opposizione ben più ampia a una Cina che continua a rispondere alle esigenze occidentali di importazione e che continua gradualmente a peggiorare la situazione climatica con la sovrapproduzione industriale. Per testare coi nostri occhi cosa si respira in un territorio in fermento e sotto i riflettori mondiali, abbiamo posto qualche domanda a un giovane hongkonghese di 22 anni cresciuto nel cuore della città e attivo nelle proteste. Per ovvi motivi, la sua identità resterà anonima.
Vivi a Hong Kong, sei nato lì e hai visto la protesta alimentarsi settimana dopo settimana. Gli eventi ormai sono di dominio internazionale, ma cosa si prova a far parte di un momento storico così delicato? Cosa provate voi in qualità di abitanti della città?
«Sì, sono di Hong Kong e la mia intera famiglia ha sempre vissuto qui. La mia scuola si trova su una delle strade più importanti per la nostra protesta. Appena è stata proposta la legge sull’estradizione che ha fatto tanto discutere tutto il mondo, abbiamo vissuto un momento di incredulità. La mia famiglia era sconvolta e ci sembrava quasi surreale che fosse successa una cosa così esplicitamente ingiusta. Ho sentito la responsabilità di manifestare contro qualcosa di incorretto. Noi come abitanti sentiamo molto forte il senso di ingiustizia, probabilmente per la nostra storia coloniale e per come abbiamo fatto rinascere la città che sentiamo nostra, totalmente, e non siamo disposti ad accettare ingiustizie».
Che percezione avete voi hongkonghesi sulla posizione dell’Europa e della stampa europea? Vi sostengono? Ne sentite la partecipazione?
«Penso che la stampa degli altri Paesi sia tra i supporti più importanti, soprattutto perché la gente deve sapere cosa sta accadendo e deve capire le nostre motivazioni. Questo dà forza a noi e insieme libera le menti di chi condivide i nostri stessi ideali. Per noi questa protesta significa credere nella giustizia e nella libertà. È davvero emozionante quando vedo che persone da Paesi lontanissimi come l’Italia ci sostengono, parlano di noi sui giornali, scrivono sui social #StayWithHongKong, ci dedicano spazio importante. Non si rendono neppure conto di quanto possano influenzare. Una cosa fondamentale è la pressione che viene fatta sul governo. Quando in altri Paesi parlate di noi o scendete in piazza, fate pressione sulla vostra politica, che di conseguenza fa pressione sul governo cinese e sulle relazioni internazionali».
Come dipingono i vostri giornali quello che sta accadendo? Collaborate con le testate nazionali?
«Partecipano insieme a noi tantissimi attivisti e impegnati in politica, anche giornalisti. Il messaggio più grande che vogliamo mandare è la speranza. Vogliamo che gli abitanti di Hong Kong non perdano mai la speranza e che non inizino a pensare che siamo sotto il controllo della Cina, perché non lo siamo, noi siamo liberi. Vogliamo spingere a essere orgogliosi, coraggiosi e determinati. Non posso dirti che collaboriamo con i giornali, i nostri contenuti li creiamo noi stessi attraverso quello in cui crediamo. Sono i giornali a parlare di noi».
La protesta è stata avviata dalla legge sull’estradizione ma è stato chiaro a tutto il mondo che avrebbe rappresentato qualcosa di più. Per cosa combatti?
«Credo che la nostra città abbia avuto così tanta risonanza perché quello contro cui lottiamo purtroppo non è presente solo qui. Le persone si riconoscono nella nostra battaglia per la libertà. Vedono in noi qualcosa che non funziona anche nella propria città. Io combatto per qualcosa che non voglio solo per HK, ma che voglio per tutto il mondo. Sicuramente è molto più che una lotta contro una legge. Più le proteste vanno avanti più scopriamo quanto sia vergognoso il comportamento del governo e della polizia. Non ascoltano i cittadini, non sono interessati alle nostre motivazioni, non provano neppure a venirci incontro. Reagiscono con violenza alle manifestazioni e hanno anche ferito volontariamente dei manifestanti. Quello per cui combattiamo non è un vizio ma è un nostro diritto. Combattiamo per 5 richieste, se devo riassumerle: vogliamo il ritiro completo della legge di estradizione dal processo legislativo. Vogliamo che ritrattino sulla caratterizzazione delle proteste come sommosse. Chiediamo la liberazione ed eliminazione di condanne per i manifestanti arrestati. Abbiamo bisogno dell’istituzione di una commissione d’inchiesta indipendente per poter valutare senza conflitto di interesse il comportamento della polizia. Per ultima cosa, è fondamentale il suffragio universale per le elezioni del Consiglio legislativo e del direttore generale».
Hong Kong sembra quasi diventata il simbolo della rivoluzione del XXI secolo e anche da quanto mi stai dicendo emerge bene la potenza di quello in cui credete. Secondo te, come mai siete tanto iconici?
«Sono felice che veniamo percepiti così, per noi è fondamentale. Io penso che Hong Kong sia diventata un simbolo per il modo in cui portiamo avanti la protesta. Se un turista qualsiasi visita HK capisce subito che la città è oltre il presente. Siamo proiettati verso il futuro e lo percepisci camminando per le strade, respirando innovazione. Questa innovazione la puoi vedere benissimo nelle modalità che stiamo usando qui. Non combattiamo con violenza, puntiamo su internet, sulla connessione internazionale, sulla stampa, sul potere della stampa. Crediamo soprattutto che si combatta creando pressioni, spingendo a persuadere, argomentando per trovare consensi. Ognuno è libero di partecipare con noi, da qualsiasi parte del mondo e già solo questa intervista rappresenta tanto».
Che atmosfera si respira tra le strade? Come la definiresti potendo usare solo un sentimento?
«Una parola è impossibile, me ne devi concedere almeno due, perché in questo momento come cittadini proviamo tanti sentimenti e a volte contraddittori tra loro. Se dovessi scegliere, ti direi due cose, ma prima faccio una premessa. La forza di questa protesta sta nella forza delle nostre idee e della nostra speranza. Le emozioni che voglio usare, invece, sono frustrazione e amore».