Nel saggio La salvezza del bello, la più recente tra le opere pubblicate dalla casa editrice Nottetempo (2019) di Byung-Chul Han, il filosofo nato a Seul che insegna Filosofia e Cultural Studies alla Universität der Künste di Berlino, ci parla della perdita progressiva dell’esperienza estetica nell’era del digitale. Nel nostro tempo storico e culturale, ci racconta l’autore, il bello viene ideato, prodotto e destinato al consumo, quella pratica compulsiva tipica del sistema capitalistico nel quale viviamo la nostra esperienza privata e pubblica di stare al mondo.
Oltre alla descrizione approfondita e critica delle concezioni filosofiche intorno alla bellezza, che è stata oggetto della riflessione delle voci più importanti del pensiero occidentale – da Platone a Kant, Hegel e Nietzsche fino ai contributi più recenti di Heidegger, Adorno e Foucault – il lettore ritrova, comunque, i temi più importanti trattati in altri libri di Byung-Chul Han, ma soprattutto nella triade saggistica costituita da La società della trasparenza (2014), Nello sciame (2015) e Psicopolitica (2016). È in questi libri, in effetti, che l’autore ci descrive il falso mito dell’accessibilità democratica alla “realtà” e la concreta scomparsa della privacy, con la deficitaria comunicazione fra gli esseri umani mediata dalle protesi tecnologiche sempre più avanzate, ma anche invadenti.
Lo studioso di nascita sudcoreana, inoltre, ci racconta dell’odierna società del controllo psicopolitico, che domina le esistenze individuali e intanto raccoglie informazioni sugli aspetti più personali della nostra esistenza. Accade nel mondo globalizzato e nell’ambito di quei processi culturali che portano allo stordimento collettivo della comunicazione e della condivisione falsamente libera, ma realmente produttrice di enormi masse di dati, rese poi disponibili per la commercializzazione da parte degli apparati del potere economico-sociale e politico.
In una società del genere, ormai, tutto ciò che riguarda l’esperienza umana resta in superficie e niente viene approfondito. Viviamo nel tempo dell’estetica della levigatezza, dove gli oggetti della comunicazione digitale, le immagini e i contenuti trasmessi restano al livello di una percezione del presente ripiegato su se stesso, che in seguito porta alla sua anestetizzazione. L’esperienza del bello si trasforma, quindi, da scossa estatica e possibile inizio di un cambiamento etico e politico a semplice, impersonale ammasso di eccitanti eventi da consumare velocemente nella vita quotidiana.
L’esperienza del bello è oggi impossibile, ci dice Han. Quando si fa largo il mi-piace, aggiunge il filosofo, viene meno l’esperienza, la quale risulta impossibile senza negatività. E la stessa informazione è diventata una forma pornografica del sapere, perché risulta priva di quella interiorità che contraddistingue il sapere. Al tempo di internet e della globalizzazione, si impone il dataismo, con la grande massa di informazioni raccolte e poi scambiate lungo le vie tecnologiche e monetarie della Rete Globale.
La bellezza non rimanda più a un’esperienza di verità, ma al semplice piacere: un sentimento autoerotico, dove il soggetto è compiaciuto di se stesso e non viene incantato dall’altro e dalla diversità delle forme umane e naturali esistenti nel mondo. In altre parole, la retina digitale trasforma il mondo in uno schermo di immagini e di controllo e in questa interiorità digitale, afferma l’autore, non è possibile alcuno stupore e, di conseguenza, l’ordine digitale celebra un nuovo ideale, quello dell’uomo senza carattere, della levigatezza dell’individuo che pensa soltanto a se stesso e non riesce a comprendere l’altro da sé o a immaginare un altro mondo possibile.
Bisogna salvare il bello, dunque, per proteggere la dimensione estetica dalle costrizioni sistemiche della kalocrazia neoliberale e per attuare una politica del bello. Perché la crisi della bellezza, ci ricorda Byung-Chul Han, consiste oggi proprio nel fatto che il bello viene ridotto alla sua semplice presenza, al suo valore di uso e di consumo.
La bellezza è un evento relazionale, insomma, e non riesce a trovare lo spazio e il tempo della sua narrazione nella tirannia contemporanea dell’estetizzazione della vita, dell’arte vissuta come piacere effimero e all’interno del dominio del sistema capitalista che la commercializza e la consegna al consumo, attraverso gli strumenti e le pratiche della digitalizzazione del mondo.