Fanno rumore le morti in divisa, hanno un’altra eco, un altro dolore, un’altra maledizione. Pierluigi Rotta e Matteo Demenego avevano poco più di trent’anni. Una pistola se li è portati via lo scorso 4 ottobre, un venerdì ancora da ricostruire. Quel pomeriggio i due agenti erano in servizio, a Trieste, quando quello che sembrava un fermo simile a molti altri si è trasformato in un’incredibile tragedia. Il come resta tuttora da chiarire.
Ciò che è accaduto nei momenti che hanno anticipato il decesso dei giovani poliziotti, infatti, non è ancora stato ricostruito. Quel che pare certo, però, è che Alejandro Augusto Stephan Meran, uno dei due fratelli portati in commissariato per il furto di un motorino, ha sottratto le armi agli agenti e ha aperto il fuoco ferendoli a morte. A pochi mesi dalla scomparsa di Mario Cerciello Rega, il carabiniere ucciso a Roma la notte del 26 luglio, quindi, altre due divise si sono macchiate di sangue. Altre due divise hanno ricordato a tutti la fragilità di questo Stato.
Quello che dovrebbe essere un luogo di sicurezza e di garanzia del diritto come della legge, infatti, si è trasformato di nuovo in un improbabile palcoscenico di violenza, di vite spezzate, di un sistema dannosamente stantio. Un sistema che non supporta gli agenti, spesso non tutelati, sottopagati o non pagati affatto – per le referenze chiedere all’ex Vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini –, tantomeno i rei o presunti tali, come le cronache raccontano a intervalli più o meno regolari. E, così, un’altra questura ha fatto parlare di sé, ha insudiciato le sue pareti, ci ha chiarito che qui, in questo Paese, non si è mai al sicuro, dentro o fuori i commissariati, dentro o fuori i luoghi propri dello Stato.
A tal proposito, sembra uno strano scherzo del destino la concomitanza dei due omicidi con l’ennesima udienza del processo Cucchi. Nelle stesse ore, infatti, a qualche chilometro di distanza, diverse uniformi, in quel caso sporche di sangue altrui, erano sul banco degli imputati. Finalmente, dopo quasi dieci anni da quel terribile 22 ottobre, il pm chiedeva una condanna per gli agenti coinvolti, cercava riscatto per un volto apostrofato in troppi modi, pretendeva verità e giustizia. Le stesse che si spera possano venir fuori anche per Cerciello, Rega e Demenego. Tre giovani, come Stefano, morti per una divisa, una furia assassina, un inspiegabile perché. Morti per e di Stato. Quello stesso Stato definitosi ferito dopo la tragedia e mai guarito dall’endemica malattia che lo attanaglia da anni nel vuoto delle istituzioni come della tutela dei cittadini. Con o senza distintivo.
Nel 2019 sono stati almeno 5 gli agenti morti mentre erano in servizio. Un anno che ha visto le forze dell’ordine spesso al centro del dibattito malsano che caratterizza il nostro Paese e il suo rapporto con l’Arma. Un rapporto che accende gli animi e divide l’opinione pubblica al punto da aver creato quasi due diversi schieramenti: quello a cieca difesa della divisa e quello a cieco contrasto della stessa. La discussione ha certamente origini lontane e non può prescindere dal luglio 2001, quando a Genova andò in scena lo spettacolo più indegno della storia recente d’Italia.
Cosa successe nell’afa di quei giorni è ormai storia nota. Ancora in tempi odierni, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato il tricolore per la macelleria messicana parlando di tortura. Cos’è accaduto dopo, invece, è tuttora sotto i nostri occhi. Secondo un ordine di forza e non di forze dell’ordine, infatti, il G8 di Carlo Giuliani ha rappresentato come uno spartiacque, una sliding door nello sviluppo del nostro Paese, mutandone o, forse, semplicemente definendone le sorti. Da allora, il modo di guardare alla divisa è cambiato per molti, facendosi più titubante e sospettoso, sfiduciato o terrorizzato.
Le immagini e le testimonianze di Piazza Alimonda prima, della Diaz e di Bolzaneto poi non hanno lasciato gli occhi di chi ha provato nel tempo a protestare senza la giusta convinzione, arresosi ormai a una netta manifestazione di superiorità, confermatasi negli anni anche con le promozioni degli agenti colpevoli. Come se il vero scopo di quei lunghi e inimmaginabili giorni tra le strade del capoluogo ligure, tra le pareti di una scuola e di una caserma – un’altra – fattesi lager fosse spargere sale sul terreno del domani, del dissenso, della richiesta di un mondo migliore.
L’anticamera dell’inferno genovese, però, non si è fermata a quel 2001 ma è tornata prepotente anche nel settembre del 2005 e nell’ottobre del 2008 quando, rispettivamente, persero la vita Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, altri due volti storici della nostra narrazione che hanno acuito le distanze tra la gente comune e le forze dell’ordine, fin troppo spesso spalleggiatesi tra sé piuttosto che allontanatesi da chi ne storpiava il nome e la natura. Episodi mai dimenticati che hanno creato precedenti e scomodi passati, timori e idiosincrasie, alimentando pregiudizi dannosi per il Paese e la sua incolumità. Come ha dimostrato, ad esempio, l’esultanza per la morte di Filippo Raciti, l’ispettore scomparso nel 2007 nel tentativo di sedare i disordini alla fine del derby di calcio Catania-Palermo e tristemente evocato anche adesso dalle frange più delinquenti delle curve d’Italia.
A questi eventi, ovviamente, vanno aggiunte poi le vicende degli ultimi diciotto mesi che hanno visto l’Arma manipolata dai politicanti di turno, su tutti l’ex Ministro dell’Interno Matteo Salvini, pubblicamente al fianco degli agenti, ma nei fatti totalmente estraneo e inadempiente alle sue funzioni di Capo del Viminale. Basti pensare che la Legge di Bilancio targata Lega-M5S ha previsto un taglio di circa due milioni di euro destinati a vestire chi esce dai corsi di formazione dei corpi armati. O, come denunciato dal SILP, Sindacato Italiano Lavoratori di Polizia, per voce del segretario generale Daniele Tissone, all’ennesimo mancato rinnovo del contratto e al mancato pagamento degli straordinari già svolti dal personale di polizia, tra l’altro il più anziano d’Europa per età media e in numero insufficiente rispetto a quanto previsto dalla legge.
Ecco che allora le scomparse di Pierluigi Rotta, Matteo Demenego e Mario Cerciello Rega rientrano, purtroppo, in un’altra categoria, forse la sola che accomuna davvero gli italiani: il precariato. Una condizione che, da Nord a Sud, sta facendo registrare sempre più decessi e con una frequenza da record. Soltanto nei primi otto mesi di quest’anno, ad esempio, sono state 685 le denunce all’INAIL di casi mortali, una media di tre morti ogni giorno. Il 2018, invece, si era concluso con 1133 caduti, un vero e proprio bollettino di guerra, deceduti mentre erano in servizio. Esattamente come gli agenti di Trieste o gli operai senza nome uccisi in fabbrica, sulle impalcature, nei campi coltivati con sangue e sudore. Tutte morti in divisa, tutti morti di Stato.