Quando la BBC e la CNN la definirono una delle migliori costruzioni del 2017, di certo, non potevano sapere che la stazione TAV di Afragola fosse stata edificata su ben 53 discariche abusive. E, invece, stando a una perizia resa nota da Il Mattino, la maestosa opera alle porte di Napoli sarebbe l’ennesimo gioiellino dell’ecomafia, uno dei pochi settori ancora avulsi dalla crisi. A confermarlo è Vito Felice Uricchio, direttore facente funzioni dell’Istituto di Ricerca sulle Acque (IRSA), ente del CNR, durante un suo intervento all’undicesimo Forum Internazionale sull’Economia dei Rifiuti organizzato dal Consorzio Polieco.
Nei mesi scorsi, la Procura di Napoli Nord gli aveva commissionato un’indagine da effettuare con la Change Detection, una nuova tecnica che consente di identificare le modifiche naturali e quelle operate dall’uomo nel territorio preso in esame, determinando anche in quale intervallo temporale sono avvenute. Grazie a essa è stato possibile riscontrare un importante quantitativo di materiale pericoloso, di provenienza industriale, nel sottosuolo ferroviario. Materiale, tra l’altro, già al centro di una delicata inchiesta che, a soltanto pochi giorni dall’inaugurazione della stazione, aveva portato al sequestro di una vasta area del parcheggio – pari a 15mila metri quadrati –, sospettata di essere costruita su terreni non bonificati e sepolcreti di immondizia nociva. Insieme all’apertura di un fascicolo per la gestione illecita dei rifiuti e l’omesso risanamento, inoltre, la stessa Procura, guidata da Francesco Greco, aveva chiesto alla Forestale maggiori informazioni su un sequestro avvenuto dieci anni prima nella stessa zona di cui si era persa ogni traccia.
A distanza di due anni, invece, è venuto fuori che non solo il parcheggio, ma l’intera stazione nasconde ben 53 siti di stoccaggio abusivi. I rifiuti, infatti, sarebbero dappertutto, persino al di sotto dei campi circostanti, ormai vere e proprie discariche rese tali dalla camorra nell’ultimo ventennio, in linea con quanto successo anche in altre aree campane celebri alle cronache come Triangolo della Morte o Terra dei Fuochi.
Eppure, dicevamo, quando al di fuori dei confini nazionali sembrava impossibile che il progetto di Zaha Hadid potesse essere, in realtà, un santuario sulla monnezza, un simulacro di quel regnante che, unico, muove il Bel Paese, da queste parti il sentore che non tutto fosse come ce lo stavano raccontando era già piuttosto vivo. Come sempre quando si parla di grandi opere.
Il critico britannico Jonathan Glancey valutava la TAV di Afragola come uno dei migliori lavori architettonici di quell’annata, sottolineando il dinamismo della costruzione dovuto – parole sue – allo spettacolare ponte a forma di serpente con una vista inquietante sul Vesuvio. A tal proposito, sottolineava l’articolista, trattandosi di un Paese sismico e vulcanico, l’ingegneria strutturale dell’opera era per lui intensa e geniale: mentre la struttura sinuosa appare senza soluzione di continuità, l’enorme edificio è costituito da singole parti che, in caso di terremoto, saranno in grado di muoversi indipendentemente l’una dall’altra. Cosa più importante, aggiungeva, la stazione è anche un potente simbolo di come, economicamente, l’Italia meridionale potrebbe ripartire.
La smisurata fiducia di Glancey, tuttavia, ignorava molte delle dinamiche del nostro strano Paese, così incapace di ripartire che, a memoria, forse nemmeno si è mai letto, almeno in tempi recenti, di opere realizzate in modo del tutto pulito, lontano da scandali e infiltrazioni mafiose. Così, anche la Porta del Sud – com’è stata spesso ribattezzata la TAV afragolese – non ha potuto esimersi dal confermarsi tipicamente italiana, quindi tipicamente malata, sin dalla sua genesi.
Datata 1992, quando il Consiglio Comunale della cittadina campana deliberò il suo parere favorevole alla proposta di una linea ferroviaria veloce Napoli-Roma, e poi 1996, quando fu prospettata l’ubicazione della stazione proprio ad Afragola, la costruzione ebbe inizio nel 2006, un triennio dopo la pubblicazione del progetto, e fu sospesa a più riprese fino all’ultimazione – non del tutto tale – del 2017, quando da Roma giunsero addirittura Paolo Gentiloni e Graziano Delrio al fianco di un Vincenzo De Luca già perentorio nel 2015 quando, in occasione del quarto taglio del nastro, sbagliando, l’aveva definito l’ultimo.
Quel giorno, l’allora Presidente del Consiglio dichiarò: «Con questa inaugurazione in un certo senso diamo il messaggio di un Paese che rialza la testa, perché un grande Paese deve essere orgoglioso delle sue grandi opere. Un grande Paese ha bisogno di grandi opere ed è orgoglioso quando nascono e quando può inaugurarle».
Un grande Paese, però – ignorava il Premier –, non può permettersi e forse nemmeno ipotizza l’ennesima vergogna, l’ennesimo trionfo di un cancro che da societario si è fatto clinico, condannando chi lo vive a lunghe ed estenuanti cure nella speranza di potersi svegliare ancora. Un grande Paese è in grado di controllare e prevenire, non si accorge poi – sempre poi – dei misfatti, degli illeciti, dei disonesti brindanti. Un grande Paese si accerta che tutto sia in regola e punisce gli avvoltoi. Non l’Italia, però, che non se ne accorge mai. E, così, quella che secondo Gioia Ghezzi, ex Presidente di Ferrovie dello Stato, è un progetto importantissimo, che facilita e accelera le connessioni con il Sud, ma che per i cittadini e i tanti attivisti messi a tacere era già un piatto sin troppo succulento per la criminalità organizzata, per adesso è soltanto una cattedrale nel deserto di un domani che si consuma nel fumo denso delle tossine.
Che la TAV di Afragola potesse essere di interesse per la camorra non lo scopriamo di certo oggi. Anzi, spesso negli ultimi anni i quotidiani nazionali hanno puntato i riflettori su un progetto la cui realizzazione si è protratta ben più del dovuto, ponendo domande, facendo nomi, indicando la luna a chi si limitava a guardare il dito. Tuttavia, nessuna risposta, in tempi e modi adeguati, è mai arrivata. A conferma del grande Paese a cui il Primo Ministro faceva riferimento.
L’assenza di un prerequisito necessario quale lo sviluppo del sistema viario circostante, poi, da sempre ha fatto storcere il naso ai più, costringendoli spesso a raggiungere il capoluogo campano per poter usufruire dei treni ad alta velocità che, comunque, non sono tantissimi. Secondo le stime, infatti, la stazione sarà a pieno regime soltanto nel 2022 con l’obiettivo di servire circa 3 milioni di utenti. Fino a quel momento, in molti continueranno a chiedersi il senso di un tale investimento, vinti da un presagio che a lungo andare è meno tale.
A tal proposito, sempre nel lontano giugno 2017, rispondendo alle critiche, Paolo Gentiloni disse: «La TAV di Afragola è una trincea avanzata, un pezzo di sistema in movimento, e l’impegno del governo è dargli continuità, stabilità e sicurezza». Ma continuità, stabilità e sicurezza, per adesso, sembrano non essere mancati soltanto a un sistema, quello malavitoso, e a un’organizzazione, quella criminale, che ha fatto delle viscere della stazione un’enorme pattumiera. Le terre tutte intorno, invece, non hanno smesso di bruciare, negando, ancora una volta, un’estate normale – e una vita realmente tale – a chi suo malgrado le abita.
Nessuno può credere all’autocombustione continua, ha ragione il Senatore Morra. Non basterà l’avvento della stagione delle piogge, quindi, a farci dimenticare che la Terra dei Fuochi, checché De Luca non voglia ammetterlo, è sempre qui, a pochi passi da noi, nelle narici agonizzanti, fuori dalle finestre chiuse per aprire i polmoni. È sotto i nostri piedi, sotto la TAV di Afragola e, forse, sotto ogni mattonella, ogni centimetro di cemento, ogni cuore di cui la politica – di governo e di opposizione – si disinteressano da sempre. Dai diamanti, in fondo, non nasce niente. Dal letame, invece, nascono i fior. In Italia, fior fior di stazioni.