Non è un caso che il titolo del nuovo film di James Gray si riferisca a quel motto latino, Per aspera ad astra, che chiama in causa la mitologia. Si diceva così, infatti, degli eroi che, per essere portati sull’Olimpo dopo la morte, dovessero aver compiuto delle imprese – o fatiche come Ercole –, quindi, attraverso le asperità fino alle stelle. Ecco che, allora, Roy McBride, l’astronauta interpretato da Brad Pitt – qui anche produttore –, compirà un viaggio dal sapore mitologico, un’odissea che lo porterà sulla Luna, su Marte, passando poi per Giove, Saturno e infine Nettuno. Non solo pianeti ma anche divinità o, meglio, secondo le antiche religioni misteriche, degli stati di coscienza o stati dell’essere che porteranno l’anima a disfarsi delle impurità, delle scorie psicologiche per ricongiungersi con la parte divina di sé o, più semplicemente, per ritrovare la propria semplice essenza nascosta sotto montagne di sovrastrutture imposte dalla società. Questo il senso di fondo che sprigiona dalla visione di Ad Astra.
In un futuro prossimo, la Terra e l’intero sistema solare – Luna e Marte sono stati colonizzati – sono minacciati da misteriosi picchi di energia che sconvolgono le apparecchiature elettroniche e provocano tempeste elettriche dalle conseguenze catastrofiche. Pare che l’origine dei raggi cosmici che provocano tali anomalie sia da ricercarsi nella zona del pianeta Nettuno dove, 15 anni prima, è scomparsa l’astronave Lima, concretizzazione di un progetto per la ricerca di forme di vita aliene guidato dall’astronauta, eroe mondiale e ricercatore Clifford McBride, interpretato da Tommy Lee Jones. Il figlio Roy viene incaricato dalle autorità di arrivare su Marte, ultimo avamposto delle colonie spaziali nonché unico luogo del sistema solare dal quale è possibile inviare un particolare segnale radio-laser che possa raggiungere Nettuno e, forse, essere recepito da McBride padre. Questo nella speranza che Clifford possa essere ancora vivo e magari impedire quelle anomalie che provengono proprio dal settore in cui ancora si troverebbe la sua astronave e che porteranno inevitabilmente a una catastrofe che coinvolgerà l’intero sistema solare. Ma non tutto è come sembra.
È da Contact (1997) di Zemeckis, passando per Interstellar (2014) di Nolan, che il viaggio interplanetario diventa, oltre che il pretesto per un viaggio interiore – si veda anche il remake americano di Solaris (2002) a opera di Soderbegh –, un percorso di recupero e riscoperta della figura paterna perduta. È una generazione orfana quella che si mette in viaggio e cerca di riportare a casa il padre o perlomeno la sua memoria. Il viaggio diventa così un venire a patti con l’immagine interiore che ognuno ha del papà, indipendentemente se la persona fisica sia ancora in vita: in Contact, per esempio, Jodie Foster lo perdeva quando era ancora una bimba ma nulla le impediva di rincontrarlo alla fine del suo viaggio. Qui, invece, l’intrepido astronauta Roy è combattuto tra la rabbia che prova per l’abbandono – aveva 16 anni quando il padre partì per le stelle – e la compassione, la voglia di riconciliarsi, nonostante il terribile sospetto che il genitore c’entri qualcosa con l’imminente catastrofe interplanetaria.
Questo il grande terrore che attanaglia Roy: il confronto con il padre, molto più che gli infiniti pericoli di un viaggio cosmico. Per il resto, il protagonista sembra imperturbabile: il battito del cuore, continuamente rilevato dalle strumentazioni, è sempre regolare e, proprio per la sua apparente indifferenza, McBride viene scelto per la delicata missione. Nel corso della vicenda, inoltre, l’astronauta deve sottoporsi a frequenti test psicologici elettronici per rilevare il livello di stress e determinare se sia idoneo a continuare la spedizione, ma questi esami si trasformano in vere e proprie sedute di autocoscienza che Roy compie davanti a una macchina. Tali scene non starebbero affatto male in qualche romanzo distopico di Philip Dick e infatti in una delle sue opere migliori i personaggi dovevano addirittura convincere dialetticamente una porta elettronica da aprirsi. Non è un caso che riecheggi anche il famigerato test Voight-kampff che in Blade Runner – sempre tratto da Philip Dick – serviva per distinguere gli umani dai replicanti. E cos’è che distingue l’uomo dalla macchina? L’empatia. Proprio ciò che i test ai quali viene sottoposto Roy vorrebbero evidenziare e sopprimere perché nel momento in cui non si prova più empatia per l’altro si diventa insensibili anche verso di sé e quindi più efficienti, ovvero idonei per una spedizione ai limiti dell’umano. Peccato che per compiere la missione sarà necessario il recupero della propria umanità da parte di Roy.
La sola efficienza ci renderebbe certamente simili alla chimerica perfezione delle macchine ma ci farebbe anche perdere quel fattore imponderabile e imprevedibile, tipico dell’uomo, che però risulta determinante in certi frangenti. Soprattutto in imprese che coinvolgono un livello esistenziale che va oltre la pura e semplice performance richiesta dalla società. Ad Astra diventa così anche un recupero dell’umana empatia a dispetto di un ottuso efficientismo.
Visivamente il film è magnifico, a partire dalla scena iniziale in cui vediamo i riflessi – i cosiddetti lens flare – del sole nell’immensità dello spazio diventare prima gialli e poi verdi nel momento in cui vengono filtrati dal casco di Roy. Le varie fasi della pellicola sono dominate da colori differenti: giallo per l’inizio, quando l’astronauta lavora su una stazione che si eleva dal suolo fino al di fuori dell’atmosfera terrestre, scale di grigio per la Luna, un rosso accecante per Marte e infine un affascinante blu elettrico per l’atmosfera di Nettuno, dio delle profondità marine. Le improvvise aperture delle inquadrature su squarci cosmici mozzano il fiato e Brad Pitt, con la sua umanità trattenuta ma pronta a esplodere, offre un’interpretazione molto convincente. Non mancano alcune sequenze davvero da brivido, come quella dell’incidente iniziale e altre che ovviamente non anticiperemo. Si astenga però chi cerca un film di fantascienza adrenalinico e basato sull’azione perché, come già evidente, siamo in tutt’altro campo.
Chi conosce la filmografia di Gray – Little Odessa (1994), I padroni della notte (2007), Two lovers (2008), Civiltà perduta (2016) – sa che il piano esistenziale dei protagonisti conta più delle mere azioni e che i loro comportamenti sono parte di un conflitto morale interiore spesso dilaniante. Anche ne I padroni della notte la figura paterna diveniva centrale con il poliziotto perfetto – in quel caso interpretato da Robert Duvall, padre di Joaquin Phoenix – come modello impossibile da seguire. Così pure per Roy la figura di un padre eroe stellare è un fardello pesante da sopportare.
C’è da dire, però, che in Ad Astra alcune forzature di sceneggiatura potevano essere evitate: per viaggiare da Marte fino a Nettuno 79 giorni sembrano davvero pochi, anche per una tecnologia futura. Inoltre, l’incompetenza degli astronauti che accompagnano Roy nella sua missione si traduce in alcune azioni a dir poco stupide per delle persone che dovrebbero essere addestrate ai massimi livelli. Infine, la voce fuori campo del protagonista – che ricorda decisamente i film di Terrence Malick –, se in alcune scene permette una connessione diretta con l’interiorità del personaggio, in altre può risultare ridondante.
Al netto di queste debolezze, il film avvince e, nonostante un ritmo in parte contemplativo, non si può non palpitare per le sorti di Roy e della sua missione, nonché per la curiosità di vedere cosa riserva la fine del viaggio. Come dicevamo, inoltre, non mancano alcune sequenze al cardiopalma, gestite in modo magistrale.
+++ Attenzione: da qui in poi ci sarà qualche spoiler (non decisivo). +++
Non finiscono qui, tuttavia, i livelli di lettura di Ad Astra. Il viaggio di Roy verso il padre Clifford rispecchia in modo evidente il percorso, altrettanto interiore, che compiva il tenete Willard verso il colonnello Kurtz nel capolavoro coppoliano Apocalypse now (1979). Anche nel film di Gray, come nel viaggio di Willard lungo il fiume vietnamita Nung, il protagonista si fa scortare da un equipaggio inconsapevole della sua vera funzione e, nel momento in cui si dovranno prendere decisioni riguardo una missione di soccorso che distrarrebbe dall’obiettivo principale, le conseguenze saranno tragiche. Anche in Ad Astra, inoltre, abbiamo un colonnello – interpretato da un grande Tommy Lee Jones, sulfureo e al tempo stesso spaesato –, evidentemente sfuggito al controllo, che crede di essere al di fuori delle leggi morali e che rilascia messaggi audio/video più o meno deliranti. Proprio come il Kurtz/Brando che nel film di Coppola considerava se stesso al di là del bene e del male e si perdeva dunque in metodi insani, almeno secondo il giudizio dell’alto comando americano.
«Lei giudica i miei metodi insani?», chiedeva Kurtz a Willard e questi rispondeva: «Io non vedo alcun metodo». Entrambi i viaggi, dunque, si rivelano una discesa in un conradiano cuore di tenebra, con la differenza che mentre Willard sussumerà su di sé la figura messianica – negativa – di Kurtz abbattendolo ma anche sublimandolo, Roy ritroverà il tesoro perduto, la sua sensibilità: ambedue usciranno comunque profondamente cambiati dall’esperienza. Così come gli iniziati dei grandi Misteri Eleusini, di Efeso o di Osiride uscivano rinnovati dall’esperienza di unione con la divinità, così il nostro protagonista forse riconoscerà la parte più vera di sé e si riconcilierà con essa.