Premessa: chi scrive non ha certamente la pretesa né i prerequisiti per presentarsi come articolista esperto, tuttologo o particolarmente eccelso, né per stilare la lista dei giornalisti buoni e dei giornalisti cattivi. Semplicemente, se qualcuno chiede cosa significhi questa professione, la mente di un aspirante redattore non può non ricorrere subito alle parole di Giancarlo Siani mentre parla con Sasà, suo direttore, nel celebre film Fortàpasc:- […] Ci stanno i cani e ci stanno i padroni. Tu vuoi fare il cane o il padrone?
– Nessuno dei due, io voglio fare il giornalista.
– E magari vuoi fare pure il giornalista giornalista, no? No, perché anche qua ci stanno due categorie: ci stanno i giornalisti giornalisti e i giornalisti impiegati. […] Dai retta a me, questo non è un Paese da giornalisti giornalisti, è un Paese da giornalisti impiegati.
Ecco che, allora, chi ha l’inguaribile mania di accendere il televisore per seguire i vari talk show dove sfilano le note firme del giornalismo italiano, a volte rischia di dubitare su a quale delle due categorie abbiano scelto di appartenere alcune di queste. Ma se già risulta faticoso seguire i dibattiti parlamentari in cui qualunque contestazione rivolta ai banchi degli avversari trova sempre una risposta fuori luogo – ma in quel caso, almeno, si ha la possibilità di non votare chi stupidamente contro-argomenta (si fa per dire) così –, il problema vero si pone nel momento in cui lo stesso schema si ripete tra i giornalisti, come successo qualche sera fa durante una nota trasmissione televisiva di La7 quando, nel corso di una disamina dei rapporti tra la Russia e la Lega – con delle inchieste giornalistiche veramente lodevoli –, un cronista ospite in studio è intervenuto con il consueto Parlateci di Bibbiano.
Se da una parte comportamenti simili spingono a credere ancora di più nell’ambizione personale di contribuire a offrire un’informazione onesta e trasparente, infatti, dall’altra scoraggiano la buona volontà di coloro che provano ribrezzo a pensare che un domani toccherà a loro – dunque, a noi – essere coinvolti in un dibattito in cui ci sarà sempre chi vuole buttare la palla in tribuna per impedire ai cittadini di informarsi. Certo è, quindi, che gran parte della diffidenza verso i quotidiani deriva dall’atteggiamento stesso di alcuni frequentatori delle redazioni, talvolta vere e proprie house organ di partiti o imprese, che controllano, direttamente e non, parte della stampa. Come quei giornali, riconducibili a editori collegati al mondo della politica, che manovrano le notizie e difendono coloro dai quali dipendono: basti pensare al travisamento dei fatti riguardanti la sentenza Stato-mafia che ha visto coinvolti vari esponenti e di cui, a volte, quasi non si è parlato. Oppure, a quei periodici che hanno orientamento progressista e una storia importante alle spalle con giornalisti che sono stati piuttosto compiacenti verso il renzismo, anche quando questo – quasi sempre – di progressista aveva ben poco. Si pensi, poi, alla macchina del fango messa in atto dai quotidiani berlusconiani contro Fini quando il fedele alleato osò uscire dal Polo delle Libertà, dimostrando come la famigerata storia della casa di Montecarlo fosse stata nascosta nei cassetti per tirarla fuori al momento giusto.
Maggiormente percepibile è, in aggiunta, il caso di giornali di provincia sponsorizzati da nemici di politici locali che sono agli ordini dei propri finanziatori, infangando gli amministratori pure quando lavorano bene. E non citiamo Libero per carità di patria. Tutti esempi che ci inducono a pensare che molte firme dimenticano il delicato compito del giornalista, vale a dire fare da intermediario tra i cosiddetti potenti e gli altri cittadini, tenendo questi al corrente di ciò che succede fuori e dentro i palazzi che contano ma, specialmente, favorendo il dibattito pubblico e veicolando valori sani e robusti. Esattamente il contrario di quanto accaduto durante una delle ultime puntate di Porta a Porta in cui il rinomato Bruno Vespa ha intervistato una donna vittima di violenza, limitandosi ad allargare le braccia e a ricordarle che se il molestatore avesse voluto ucciderla lo avrebbe fatto, in risposta alle sconcertanti dichiarazioni di lei su ciò che ha dovuto subire. Come a dire che sì, lui le avrà fatto del male, ma fino a un certo punto, poi si è fermato. Tutto questo nel corso del programma d’informazione più seguito, da anni in onda sulla prima rete della televisione di Stato. Ancora più gravi, infatti, sono le nefandezze a opera della tv pubblica: ma come dimenticare la stessa RAI che censurava programmi e personaggi ostili a Berlusconi negli anni in cui il Caimano era al governo.
Come se non bastasse, altrettanto deplorevole è l’atteggiamento di quanti si ostinano a credere che se un giornalista esprime un’opinione o prende una posizione, sia automaticamente fazioso – frutto di una concezione distorta causata probabilmente sempre dal ventennio dell’ex Cavaliere –, confondendo la neutralità con la faziosità e la cronaca con l’opinione personale. Come diceva Gaetano Salvemini, infatti, noi non possiamo essere imparziali. Possiamo soltanto essere intellettualmente onesti e mettere in guardia i nostri lettori. L’imparzialità è un sogno, la probità è un dovere.
Va da sé che è un altro conto il caso di giornalisti che tendono a schierarsi confortevolmente sempre dalla parte del potere: quella si chiama comodità. Per questo è bene che i cittadini leggano e si informino, solo così hanno la possibilità di scegliere tra chi fa questo fantastico mestiere con passione, tenacia e coraggio e chi, invece, lo fa per tornaconto personale. E noi, giovani penne, dobbiamo scegliere a quale delle due categorie appartenere: vogliamo fare i giornalisti giornalisti o i giornalisti impiegati?