Ci stiamo abituando al meno peggio. Con facilità sorprendente, siamo passati da un governo di destra a uno non di destra – perché di sinistra proprio non si può dire –, con un Primo Ministro espressione dell’uno e dell’altro e una forza politica, alquanto recente sullo scenario che conta, buona per entrambe le fazioni.
Partiti o movimenti che siano, senza un’identità precisa e senza alcuna specificità, pronti a governare per amministrare un Paese ormai fermo su tutti i fronti, con crescita zero e con un tasso di disoccupazione, in particolare quella giovanile, davvero preoccupante come segnala l’ultimo rapporto SVIMEZ che ha quantificato la fuga dal Sud in 2 milioni negli ultimi sedici anni, dei quali circa 900mila costituito da giovani e 600mila da famiglie (di cui 470mila al Centro-Nord), alla ricerca di un lavoro. Una vera e propria emigrazione che a certa politica sembra non interessare perché fa meno scalpore di un’immigrazione che evidentemente calamita maggiormente l’attenzione di una parte di questa Italia che più volte abbiamo definito – a giusta ragione – razzista e xenofoba e che a talune formazioni è indispensabile per la propria crescita elettorale e personale. Come per il capopopolo che, in merito a questi temi trattati in sei importanti riunioni comunitarie, in quattordici mesi ha visto la sua partecipazione soltanto una volta, troppo occupato tra selfie e balli in spiaggia, per poi scontrarsi con il solo scopo di apparire sulla scena nazionale come paladino di un’altra Europa, quella degli Orbán e dei muri.
Ma archiviata per ora la fase Salvini, quella della sua coda Meloni e della loro piazza caciarona di qualche migliaio di seguaci – cui pare abbiano dato la loro adesione anche alcuni ex pentastellati alla ricerca di una collocazione per loro più congeniale –, è iniziata, adesso, quella meno peggio, tra le tante insidie che ho avuto modo già di indicare in precedenti interventi, come, ad esempio, il Matteo Renzi improvvisamente convertitosi sulla via di Damasco per una coalizione con quei grillini pur sempre utili per chiudere il cerchio di un progetto partito dallo scellerato patto del Nazareno e del quale il candido Nicola Zingaretti ci si augura sappia gestire il percorso insidioso che potrebbe letteralmente spaccare il Partito Democratico. Questa volta non per l’uscita dei Bersani e dei Grasso.
C’è da chiedersi, però, quanto tempo ancora occorrerà per delineare un quadro governativo costituito da partiti non più centri di solo potere ma luoghi di elaborazione politica, luoghi di aggregazione vera di tutte quelle componenti essenziali per costruire un progetto fondato sul benessere comune, sul rispetto delle regole della sicurezza sul lavoro – che dall’inizio di quest’anno ha fatto più morti che un terremoto –, sul rispetto dei contratti e di tutte quelle tutele che evitino un precariato vergognoso oltre che la mortificazione degli stessi lavoratori. Un’elaborazione seria di un piano per la crescita e per l’impiego, un aiuto che sia stimolo per le imprese ad assumere precari, giovani che ancora sperano di lavorare nel proprio Paese, misure non insignificanti o penalizzanti soltanto per i lavoratori e buona occasione per imprenditori troppo spesso soltanto prenditori.
Occorre tornare alle scuole di partito o movimenti che siano. Non è più possibile inventarsi ministri o sottosegretari che non abbiano la conoscenza neanche di un articolo della Costituzione, di un’esperienza sui territori, nelle municipalità, nei Comuni, nelle Regioni e poi trovarsi magari a capo di una Camera dei Deputati, vicepresidenti del Consiglio o altro. Non ha importanza se abbiano lavorato come bibitari, salumieri o muratori, anzi questi dovrebbero rappresentare titoli di merito, ma avere almeno la percezione di cosa sia amministrare la cosa pubblica, la conoscenza del settore cui si è catapultati a dirigere. La mediocrità, la mancata consapevolezza, non può e non deve essere più tollerata. Non a caso, su questo giornale abbiamo affrontato il tema delle facce e delle poltrone sbagliate, ma anche dei rapporti del nostro Parlamento con la Comunità Europea che esigeva scelte serie fondate sulle specifiche competenze e non rispondenti a dinamiche spartitorie che ancora una volta hanno confermato che di cambiamento non c’è stato assolutamente nulla.
Il delicato tema della riduzione dei parlamentari, inoltre, è quanto di più falso e pericoloso si possa proporre tanto più se visto come semplice risparmio. Quella riduzione richiesta a più voci è rischiosa e nell’ottica dei pieni poteri bramati dal famoso ex Ministro ricorda ancora una volta il triste passato. Non è certo il numero il tema, ma una delegazione effettivamente scelta da quel popolo tanto evocato, talvolta a sproposito, nel contesto di una legge elettorale rispettosa della pluralità e di una rappresentanza all’altezza dei propri compiti oltre che una presenza che non vada oltre le dita di una mano come successo per i Ghedini, i Berlusconi o i tanti assenteisti perenni.
Fin quando gli elettori, come in particolare da trent’anni a oggi, apparterranno alla schiera dei proviamoli e lasciamoli lavorare, facendo voli pindarici dall’allegra compagnia dell’ex Cavaliere, dei Bossi e dei Meloni al nuovo dei Vaffa e dell’uno vale l’altro o, peggio del peggio, a una Lega fascista e ladrona di ben 49 milioni di euro dei contribuenti – è sempre bene ricordarlo –, l’instabilità e la precarietà del quadro politico continueranno in questa altalena fin quando sarà possibile.
Occorre guardare avanti, aprirsi a quella società civile fatta di imprenditori che abbiano a cuore oltre che i legittimi propri interessi anche quelli comuni, a quelle forze giovanili del mondo universitario, della ricerca, del lavoro e di quel precariato vittima di scelte vergognose di governi incapaci, di quella politica mediocre e inutile presente nelle aule del Parlamento, nelle Regioni, nei Comuni e nelle Municipalità. In una parola, valorizzazione delle competenze, delle capacità e dell’onestà. Di certo, non quella sbandierata e gridata solo a parole da quanti a ogni occasione hanno lo slogan che più si adatta.