Robert Frank, fotografo e regista, si è spento lo scorso 9 settembre all’età di 94 anni. Lontane dalla classicità, le sue non erano immagini pulite e precise, bensì scatti spesso sfuocati, con tagli obliqui e apparentemente casuali. Frank, infatti, ha dato vita a una fotografia documentaria che va oltre il distinto formalismo di Walker Evans, il poetico lirismo di Henri Cartier-Bresson o, ancora, di André Kertész. Nelle proprie istantanee, dall’intensità lunatica e fresca, ha lasciato un segno che è impossibile non riconoscere, esprimendo con la sua Leica 35 millimetri una visione empatica, ostinata e contraddittoria, così com’è contraddittorio l’uomo.
Diventato probabilmente in modo inconsapevole il padre dell’estetica dell’istantanea, alla fine degli anni Sessanta, nella sua fotografia ha cercato sempre di catturare la sensazione di spontaneità in un momento per lui autentico, con un approccio allo scatto perfettamente in sintonia con l’etica dell’epoca. Per lui, correttezza emotiva e impegno personale erano virtù concrete.
Nel 1946, quando viveva ancora a Zurigo, sua città natale, realizzò un libro fatto a mano dal titolo 40 Fotos in cui erano presenti anche delle immagini di animali in gabbia che ringhiavano con impotenza. Queste erano il suo modo di esprimere i sentimenti e le emozioni che provava vivendo in una terra torbida e convenzionata, per lui una vera e propria prigione. Per tale motivo, il 14 marzo del 1947 si trasferì a New York.
Nella Grande Mela portò a termine un lavoro che gli permise di essere riconosciuto, seppur in ritardo, come il grande fotografo quale era: si tratta del rivoluzionario libro The Americans, immagini in bianco e nero che ritraevano l’America nella metà degli anni Cinquanta realizzate nel corso dei suoi molteplici viaggi. Questa raccolta fu pubblicata per la prima volta in Francia da Robert Delpire nel 1958 con il titolo Les Américains, dove le fotografie di Frank furono utilizzate come illustrazioni dei saggi degli scrittori francesi. L’edizione americana invece, pubblicata nel 1959 da Grove Press, contiene soltanto le immagini, proprio come lo aveva concepito il fotografo svizzero. Per la realizzazione del progetto, fondamentale fu il finanziamento – ricevuto per la prima volta da un europeo – da parte della Guggenheim Fellowship che gli permise di percorrere circa 10mila miglia scattando più di 27mila foto di cui soltanto 83 entrarono ufficialmente a far parte della pubblicazione.
Alla fine del tour, Frank incontrò Jack Kerouac, il quale aveva scritto dei suoi viaggi americani nel romanzo pubblicato nel 1957 dal titolo On the road. Per Kerouac, Robert Frank era riuscito a catturare in straordinarie fotografie delle scene che mai erano state viste prima nei film: Quella folle sensazione in America, quando il sole picchia forte sulle strade e ti arriva la musica di un jukebox o quella di un funerale che passa. È questo che ha catturato Robert Frank, scrisse il celebre autore nell’introduzione dell’edizione americana di The Americans.
Inizialmente, Frank aveva ammirato molto Cartier-Bresson e l’agenzia Magnum Photos, tuttavia tempo dopo se ne distaccò, tanto da respingere il lavoro di Cartier-Bresson in quanto rappresentante di un fotogiornalismo privo di sostanza. Per Robert, infatti, il fotogiornalismo tendeva a semplificare troppo la visione del mondo, limitandolo a storie maledette che avevano un inizio e una fine. Dopo The Americans non riuscì a realizzare altri progetti così imponenti e importanti nel mondo della fotografia, tuttavia investì le sue energie nel mondo del cinema. Il suo primo film, Pull My Daisy, del 1959, può essere considerato una pietra miliare del cinema d’avanguardia, adattato dallo stesso Kerouac per la sua opera teatrale The Beat Generation. Realizzò poi altri film, tra cui The Sin of Jesus, Conversations in Vermont e il suo primo lungometraggio, Me and My Brother.
All’inizio degli anni Settanta, Frank ricevette l’incarico di scattare delle foto per la copertina di Exile on Main Street, il nuovo album dei Rolling Stones. Inoltre, girò un film-documentario sul tour del 1972 nel quale raccontò non soltanto della musica, delle esibizioni del gruppo, ma anche l’utilizzo della droga, la violenza della folla e delle groupies nude. Un progetto che sorprese i Rolling Stones e che ottenne persino un ordine restrittivo relativo dove e quante volte fu proiettato. In quello stesso anno, l’artista pubblicò Lines of My Hand, un libro, in realtà realizzato prima di The Americans, molto autobiografico.
Robert Frank ha esplorato il mondo della fotografia attraverso una grande varietà di mezzi tra cui grandi stampe Polaroid, immagini video, sperimentazioni di parole, immagini, riprese e regia di film, come il suo Candy Mountain del 1988. Tuttavia, nessun altro lavoro ha avuto un’eco così intensa come The Americans, il volume in cui il fotografo comprese che nell’immortalare gli americani trovasse più interessanti quelli meno privilegiati. In una sua intervista per il Times Magazine dichiarò: «Mia madre mi ha chiesto: “Perché scatti sempre foto di persone povere?” Non era vero, ma provavo simpatia verso le persone che hanno lottato. E allo stesso tempo c’era anche diffidenza nei confronti di chi invece le regole le ha create».