Dopo quasi tredici settimane di proteste violentissime, il 3 settembre ha segnato un’importante vittoria per la città di Hong Kong. La governatrice Carrie Lam, infatti, ha ritirato la legge sull’estradizione con un discorso pre-registrato trasmesso alle 18 in tv. L’obiettivo è stato raffreddare l’atmosfera nell’idea di un’apertura verso i desideri dei cittadini (#5demands, hashtag della protesta), le cui richieste erano: ritirare il disegno di legge, le dimissioni di Lam, un’inchiesta sulle brutalità perpetuate dalla polizia, il rilascio degli arrestati e maggiori libertà democratiche.
Per comprendere le dinamiche delle proteste appena concluse, è necessario un passo indietro: Hong Kong, dove Oriente e Occidente si fondono con mille contraddizioni, ha alle spalle una lunga storia da colonia britannica dal 1841 – a seguito della Prima Guerra dell’Oppio – al 1997 (con la parentesi giapponese dal 1941 al 1945). Fortemente influenzata dal modello inglese, mantiene una magistratura indipendente fondata sul Common Law, tipico del Regno Unito ed esportato nei Paesi anglofoni. Dal 1° luglio 1997, però, Hong Kong tornò sotto la sovranità cinese che promise di non instaurare il sistema socialista ma garantì un alto grado di autonomia – a eccezione di politica estera e difesa – per cinquant’anni, fino al 2047. Una Cina, due sistemi, dunque, è la formula coniata dalla stampa occidentale per definire le trattative intraprese tra Deng Xiaoping (leader comunista della Repubblica Popolare Cinese) e il Regno Unito, evidenziando da un lato la supremazia politica di una Cina, dall’altro la possibilità di zone a statuto speciale con un sistema politico, economico e giuridico differente dal potere centrale, in una forma limitata di autogoverno. Ancora attualmente, Hong Kong attinge al modello scolastico inglese e all’apertura economica al capitalismo, differentemente dalla matrice comunista del sistema economico-politico cinese. Da territorio liberale, inoltre, ha avuto da subito una legge per l’estradizione in nazioni garanti di un giusto processo, ma non in Cina, dove la distinzione tra potere giudiziario e politico è sostanzialmente inesistente.
La questione dell’estradizione, quindi, si aggiunge a una già lunga scia di proteste contro il tentativo cinese di una normalizzazione di Hong Kong, mirata all’assorbimento della zona sotto un marcato controllo politico-economico. Una prima grande esplosione delle tensioni si ebbe con le rivolte del 2014 innescate dalla proposta di una riforma elettorale del 31 agosto in vista delle elezioni del 2017. La Cina mirava a limitare il suffragio universale attraverso un comitato elettivo di 1200 personaggi ritenuti affidabili e affini alle sue politiche. La protesta non tardò, e passò ben presto alla storia come Rivoluzione degli Ombrelli, in onore dei famosi ombrelli gialli utilizzati dalla folla contro i lacrimogeni e i fumogeni delle forze dell’ordine che divennero internazionalmente simbolo di una Hong Kong in rivolta per continuare a essere luogo trasparente e autonomo. L’evento dimostrò come i rapporti tra Cina e Hong Kong – a soli 17 anni dalle trattative – andassero verso una naturale incrinatura per divergenze troppo grandi da superare. Più di 13mila studenti avviarono una disobbedienza civile e pacifica con il supporto di tre principali organizzazioni: Occupy Central with love and piece di Benny Tai, Federazione degli studenti di Hong Kong di Alex Chow e Lester Shum e Scholarism di Josha Wong. La protesta bottom up durò 79 giorni (26 settembre – 15 dicembre) attraverso sit-in, blocchi stradali e marce per le vie storiche di Hong Kong, esaurendosi sotto la costante minaccia di un intervento armato da parte delle autorità cinesi e della polizia locale. Gli attriti continuarono per l’intero 2015 e 2016, aggravandosi con l’elezione nel 2017 della nuova governatrice Carrie Lam, vicina alle posizioni cinesi sebbene a 26 punti di distacco dal candidato più popolare.
Come collegare le proteste del 2014 a quelle del 2019? I temi suffragisti, così come la legge sull’estradizione, sono da leggere in un quadro ben più ampio alla luce dei complicati rapporti tra Hong Kong e la Repubblica Popolare e del timore degli hongkongesi per l’avvento di un fatale 2047, che decreterà la fine ufficiale delle autonomie della regione. La legge elettorale del ’14 e quella sull’estradizione del ’19 sono simbolo di una problematica più radicata e di una necessità, per gli abitanti, di nuove riforme democratiche e della dimissione di un governo troppo simpatizzante per la Cina che non rispetta gli accordi del 1997. Figli degli ombrelli gialli, i protestanti delle ultime settimane si sono armati di elmetti, occhiali per gli spray urticanti e laser colorati venendo accolti da censura e minacce dal governo cinese, preoccupato di una possibile esportazione della rivolta ad altre regioni amministrative speciali, quali Taiwan e Macao. A differenza del ’14, a essere coinvolti non sono stati solo studenti ma investitori, commercianti, avvocati e imprenditori preoccupati delle conseguenze di una limitazione della libertà. Avrebbe infatti decisivo impatto sulle borse asiatiche e sul dollaro di Hong Kong, scoraggiando investimenti da enti stranieri e minando la base di una super potenza economica. Secondo la stampa locale è proprio questo fattore ad aver fatto retrocedere Lam: dal ritiro della legge dell’estradizione, la Borsa di Hong Kong è schizzata al rialzo del 3%.
Ed è proprio il mese appena trascorso che ha involontariamente fornito l’hashtag ufficiale di quanto è accaduto ad Hong Kong a seguito di brutali scontri tra polizia e manifestanti. L’11 agosto, infatti, una ragazza manifestante del volontariato medico è stata ferita e resa permanentemente cieca all’occhio destro da un colpo sparato dagli agenti. L’occhio per Hong Kong nel giro di poche ore è diventato simbolo delle rivolte, diffondendo sul web una campagna e migliaia di foto di worldwide supporters intenti a coprirsi l’occhio destro con una mano. Non è difficile, inoltre, immaginare l’impatto dei social nella questione Hong Kong: le proteste sono state organizzate su gruppi Telegram e appelli su Instagram e Twitter. «Ci sono snodi, come in un social network. Non c’è una struttura piramidale di comando», ha spiegato Leung al Wall Street Journal per sottolineare l’imprevedibilità e la forza delle proteste. Il ritiro della legge sull’estradizione, dunque, stabilizza solo temporaneamente la situazione delicata della regione, che promette di lottare per le altre richieste. «Siamo tutti dei leader», afferma uno studente di Hong Kong, una Hong Kong che lotta per «giustizia, libertà e pace».
Fotografie di Mery Sinatra (Instagram.com/wild.at.eart)©