La foresta amazzonica brucia. Il più grande e resistente polmone del nostro pianeta, la più grande fonte di ossigeno che abbiamo a disposizione, è in fiamme da giorni. Mentre da un lato brucia la Siberia, distruggendo ecosistemi e sciogliendo ghiacciai, dall’altro brucia l’Amazzonia, mettendo in pericolo la biodiversità caratteristica della zona. L’Istituto Nazionale di Ricerche Spaziali brasiliano (INPE) ha lanciato l’allarme incendi e nel mirino sono finiti il governo del Paese, accusato di una cattiva gestione delle politiche ambientali, e le ONG, a loro volta accusate dal Presidente Bolsonaro. Un continuo scaricabarile tra gli enti che punta solo a trovare un colpevole, ma sempre poco attivo nel correre ai ripari – come d’altronde siamo abituati a fare quando si tratta di emergenze ambientali.
Degli immensi roghi che stanno tingendo di rosso e grigio la rigogliosa macchia verde si parla da pochi giorni. Eppure sembra che l’emergenza vada avanti da mesi. L’INPE ha registrato un aumento dell’82% degli incendi da gennaio ad agosto 2019 rispetto all’anno precedente. Nei nove Stati che compongono la foresta amazzonica, bruciano più di 39mila roghi a quanto pare quasi tutti dolosi. Roghi immensi, che attecchiscono in fretta tra le floride terre dell’Amazzonia e che diventano in breve tempo tsunami distruttivi, onde anomale impossibili da controllare o domare che spazzano via la rigogliosa e singolare vita che popola quei luoghi.
Principale colpevole, come è immaginabile, la deforestazione, che pare sia aumentata del 278% rispetto al 2018 e che utilizza il fuoco come metodo più efficace per liberare la terra dai boschi. Una tendenza pericolosamente in aumento che mette a rischio la nostra più grande difesa contro il riscaldamento globale. Le grandi distese di verde non rappresentano, infatti, solo una fonte di ossigeno: sebbene la foresta amazzonica produca il 20% del nostro ossigeno, la sua importanza non si ferma qua. Gli alberi sono in grado di trattenere l’anidride carbonica e di rilasciarla, attraverso le loro radici, nel suolo, diminuendo così la quantità di CO2 immessa nell’atmosfera, principale causa del global warming. Una doppia funzione, quindi, quella di alberi e foreste, che ci salva la vita due volte e che noi, ignari e affamati, continuiamo a danneggiare.
È da alcuni mesi che le proteste degli indigeni si scontrano con l’insistente presenza di agricoltori e gruppi industriali nelle riserve amazzoniche. La storia degli aborigeni è quasi sempre fatta di invasioni ben riuscite e opposizioni fallite, di sottomissione e di emarginazione, se non assorbimento. Eppure, in Brasile sono migliaia gli indigeni che fronteggiano da mesi le forze dell’ordine, animando proteste in difesa delle verdi foreste, costantemente minacciate dalle attività agricole che tentano di espandersi sempre di più e che sono soggette a limiti sempre meno esigenti. E in questi giorni di fiamme e di cenere, di zone annerite e desolate, private di flora e di fauna, la battaglia degli amazzoni non stenta a farsi sentire.
Non staremo zitti, una promessa più che una minaccia, quella della donna Pataxò che richiama l’attenzione mondiale sulla sua casa che brucia. La colpa ai programmi politici, intenti solo a guadagnare, alle industrie, intente solo a produrre, a discapito non solo della sua gente, ma della salute dell’ambiente. Incolpa il governo, il Presidente, le industrie minerarie, ma il suo è più di ogni altra cosa un appello disperato affinché il resto del mondo guardi, capisca e faccia qualcosa. E poi la promessa: non guarderemo il nostro futuro bruciare. Ma non si tratta solo del suo futuro. Quella che gli indigeni combattono ogni giorno è una battaglia anche nostra, è la battaglia per la vita che abbiamo dimenticato di combattere. La vita umana su questo pianeta dipende dalla vita di altre specie, dalla presenza di ricca flora e fauna, eppure sembra che ancora non ci sia chiaro. Si deforestano i boschi, si eliminano le specie animali o si nega loro la casa che meritano. E alla fine di questo lungo percorso di distruzione, che non si cura di tutto il resto se non del benessere dell’essere umano, in fondo a questa via ci aspetta solo un futuro invivibile, probabilmente mortale, su un pianeta senza diversità nel quale non ci sarà più posto neanche per noi.