Quello che vorrei proporvi oggi è un affascinante esperimento mentale: provate a pensare alle immagini non tanto come a oggetti inerti del nostro sguardo, ma come a soggetti animati, dotati di personalità, bisogni e, soprattutto, desideri. Anziché chiederci che cosa le immagini significano, proviamo a domandarci che cosa vogliono. Provare a pensare a esse come dotate di desiderio significa pensarle come soggetti a cui bisogna “ridar voce”, soggetti desiderosi di controllare lo sguardo dello spettatore piuttosto che offrirglisi passivamente come oggetto da contemplare. La richiesta è sicuramente bizzarra e, forse, persino improponibile. Comporta, infatti, una soggettivazione delle immagini e una discutibile personificazione delle cose inanimate.
Anche se apparentemente strana, la proposta riflette, in realtà, un nostro atteggiamento comune nei confronti delle immagini che vengono considerate, molto spesso, come capaci di influenzare, sedurre, sviare lo spettatore, esercitando su di lui un potere che deve essere in qualche modo contrastato. Tutti sanno che una fotografia del proprio caro non è un corpo vivo, ma saranno comunque riluttanti a sfigurarla o a distruggerla. Nessuna persona razionale pensa che le immagini debbano essere trattate come persone, ma è sempre disposta a fare eccezioni per casi speciali. Anche gli storici dell’arte, dal canto loro, sanno che le rappresentazioni che studiano sono meri oggetti, ma spesso ne parlano e agiscono come se avessero dei sentimenti. Tuttavia, tale atteggiamento non si limita ai soli esempi riportati: ogni pubblicitario sa, infatti, che le immagini hanno una sorprendente capacità di generare desideri.
Se vogliamo dirla tutta, questa tendenza a considerarle come esseri viventi dotati di volontà ha profonde radici antropologiche – pensiamo ai fenomeni dell’animismo e del totemismo, ma anche alle credenze nel potere delle immagini che diedero vita alle prime forme di iconoclastia – e si ripropone nelle riflessioni di Marx e Freud sul feticismo. Non c’è nessuna difficoltà, quindi, nel dimostrare che l’idea della personificazione delle immagini è altrettanto viva nel mondo moderno quanto lo era in passato.
Consideriamo per un momento il celebre dipinto di Diego Velázquez, Las Meninas. L’opera mette in scena la finzione di essere sorpreso dallo spettatore e ci invita, inconsapevolmente, a partecipare a questo gioco e a ritrovare noi stessi, non solo letteralmente nello specchio appeso alla parete in fondo, ma negli sguardi dei personaggi del quadro che danno l’impressione di riconoscerci. Sembra essere questa l’esplicita domanda del dipinto. Ma, ovviamente, la realtà è esattamente l’opposto: il dipinto, infatti, fa solo finta di accoglierci. In verità, lo specchio non riflette noi e neppure il re e la regina di Spagna, piuttosto, riflette l’immagine sulla tela alla quale Velázquez sta lavorando. Le figure rappresentate non stanno davvero rivolgendo lo sguardo verso di noi. Las Meninas mette in dubbio l’autorità degli spettatori e, contemporaneamente, le rende omaggio. Questa immagine non pretende nulla da noi, eppure finge di essere orientata verso il suo pubblico. Tale opera, come tutte le opere d’arte, è autonoma, autosufficiente, perfetta al di là del desiderio. Cosa desidera da noi, allora? Una risposta possibile è “niente”.
E, dunque, cosa vogliono le immagini? Per rispondere alla domanda, dobbiamo ricordarci che è fondamentale che non vengano confusi il desiderio della raffigurazione con i desideri dell’artista, dello spettatore e delle figure all’interno dell’immagine stessa. Ciò che le immagini vogliono non coincide con il messaggio che esse comunicano o con l’effetto che producono e nemmeno corrisponde con ciò che dicono di volere. Le immagini non aspirano necessariamente a essere interpretate, decodificate, adorate, distrutte, smascherate o criticate. Non bramano nemmeno di affascinare a tutti i costi. Ciò che desiderano è semplicemente che si chieda loro che cosa bramano con la consapevolezza che la risposta potrebbe benissimo essere che non vogliono proprio nulla.
Contributo a cura di Samantha O. Storchi.