C’è un fascino indiscutibile e irresistibile negli aridi e selvaggi paesaggi del cosiddetto outback australiano, e i film che sanno valorizzare tale risorsa naturale partono già con una marcia in più: pensiamo alla filmografia di Rolf De Heer (The tracker in particolare), ai primi lavori di Peter Weir (Picnic a hanging rock su tutti ovviamente) oppure alla trilogia di Mad Max. Goldstone non fa eccezione. Lasciamo stare anche stavolta l’inutile e banale sottotitolo aggiunto dalla distribuzione italiana.
Nella piccola cittadina di Goldstone, avamposto minerario di frontiera in cui, nelle parole dello stesso autore Ivan Sen, indigeni e non indigeni si spingono, sovrappongono e scontrano come placche tettoniche, per motivi culturali, ideologici, spirituali ed economici, è la compagnia Creek a farla da padrona, sia sotto il punto di vista della sicurezza che dell’economia. L’ammanigliamento con il corrotto Sindaco Maureen (interpretata da un’infida Jacki Weaver), amante di Johnny (David Wenham), responsabile della ditta mineraria, garantisce la strada spianata per licenze e appianamenti di eventuali problemi. L’ampliamento a oltranza della concessione mineraria della Creek a tutto il territorio, anche a discapito delle terre sacre degli aborigeni deve filare liscio, senza alcun intoppo di sorta, compresa la connivenza di due rappresentanti del popolo indigeno che dovranno firmare l’accordo. In questa situazione già calda, arriva il detective federale Jay Swan (un silenziosissimo ed efficace Aaron Pedersen), di etnia aborigena anche lui, che deve indagare sulla scomparsa di Mei, una ragazza cinese. Sì, perché a Goldstone non ci si fa mancare nulla, nemmeno la tratta di giovani orientali che per pagare debiti familiari sono costrette a prostituirsi in un bar equivoco, nel bel mezzo del deserto, chiamato Il ranch. A mantenere la legge in città, pensa il giovane sceriffo Josh Waters (Alex Russell) che ha sempre cercato di tenersi al di fuori di certi affari, mantenendosi pulito ma girando anche la testa dall’altra parte. Con l’arrivo di Jay e della sua indagine sulla scomparsa di Mei, nonché con il suicidio fin troppo sospetto di Jimmy, uno dei due rappresentanti che all’ultimo momento si rifiuta di ratificare l’accordo con la Creek, Josh dovrà decidere da che parte stare.
Il mondo rappresentato da Sen in Goldstone è spietato e si regge su delicati equilibri di sopraffazione: è come se fosse la riproduzione al microscopio dell’intera società occidentale dove se nessuno interverrà le cose andranno sempre peggio. Come si diceva, il fascino della pellicola risiede nel sapiente utilizzo del paesaggio australiano che rispecchia l’aridità e la violenza nei rapporti di potere tra gli uomini, ma non solo. Riesce anche a restituire una selvatichezza e un’alterità irriducibili alla dimensione umana che escono fuori per esempio nella bellissima scena in cui l’anziano Jimmy – interpretato da David Gulpilil, indimenticabile guida di The tracker – porta Jay a riscoprire le sue radici in un canyon dove si trovano antiche pitture rupestri tipiche degli aborigeni. Secondo le leggende, i simboli incisi in tali luoghi permettono di entrare in contatto con l’Alterjinga, la dimensione del Sogno che per i nativi australiani ha la stessa valenza e importanza del mondo materiale, anzi ne costituisce la base noumenica. Jimmy intona dei canti ed esegue gesti, non comprensibili razionalmente ma dalla valenza ancestrale, che incantano sia Jay che lo spettatore.
Non è un caso che il film si apra con una carrellata di fotografie d’epoca in cui vengono mostrate le condizioni di vita dei coloni inglesi, degli aborigeni e anche dei cinesi presenti in Australia tra il XIX e l’inizio del XX secolo. In alcune di queste foto risulta già evidente la condizione di sopraffazione che è esistita fin dall’inizio tra gli usurpatori inglesi – tali erano in effetti – e le etnie indigene o immigrate.
I toni della pellicola, sia nella trama che nei risultati visivi, sono da western moderno o neo-western e ricordano non poco le atmosfere dei film americani di Taylor Sheridan, in particolare per l’ambientazione Hell or high water (2016) di cui era sceneggiatore, ma soprattutto I segreti di Wind River (2018), di cui era anche regista, nel quale a scomparire era una ragazza nativa americana, con la differenza che la vicenda si svolgeva tra le nevi dell’Alaska. Va aggiunto, inoltre, che Goldstone è in realtà un film del 2016, quindi precedente a Wind River, che soltanto adesso ha trovato una strada distributiva in Italia tra le cosiddette rimanenze di magazzino estive. Ed è un peccato perché Ivan Sen riesce a dire tante cose senza perdersi in fronzoli e con una messa in scena secca, efficace, anti-spettacolare nel senso che non ricorre alle scorciatoie del genere action ma è comunque terribilmente affascinante, sia per il sapiente utilizzo del paesaggio che rende il mistero di una natura apparentemente indifferente ma in realtà pregna di significati, sia per lo scontro di caratteri, in particolare dei due poliziotti che si dibattono in situazioni più grandi di loro. Uno dei due seguirà un percorso narrativo di scoperta di sé e della propria coscienza che lo porterà a un cambiamento di prospettive e, forse, ad agire di conseguenza.
Unico neo, l’uso insistito di inquadrature dall’alto, a piombo come si suol dire, realizzate evidentemente con droni che, se da un lato sottolineano la presenza di un destino ineluttabile che incombe sui protagonisti e sulle etnie coinvolte nei giochi di potere di Goldstone, dall’altro l’utilizzo eccessivo di tale soluzione visiva la snatura e la svuota di significato. Al netto di questo va comunque tutta la nostra ammirazione a Ivan Sen, il regista di etnia Gamilaroi (Nuova Zelanda), che non solo ha scritto e diretto il film ma ne ha realizzato anche la fotografia, il montaggio e le musiche (!).