C’era una volta un movimento nato dall’idea di un comico che si era sempre divertito a sbeffeggiare i politici con la sua satira sfacciata e impertinente, fin quando non ebbe deciso di organizzare una manifestazione che prese il nome di Vaffa-day e che si svolse per la prima volta nel settembre del 2007. Questo signore si chiamava Beppe Grillo e riuscì a coinvolgere migliaia e migliaia di persone, stanche delle politiche di quegli anni e desiderose di un cambiamento all’interno delle istituzioni.
Tale fu il seguito ricevuto che il comico si mise in testa, insieme all’imprenditore Gianroberto Casaleggio, di creare un gruppo i cui pilastri fossero acqua, ambiente, energia, sviluppo e trasporti. Cinque soli punti che lo portarono a chiamarsi MoVimento 5 Stelle. Cosa sia accaduto successivamente, ormai, è cronaca, e anche su questo giornale abbiamo avuto modo di evidenziare quali sono state le cantonate degli ultimi anni e la difficoltà che il movimento ha riscontrato nel mantenere le promesse fatte agli elettori.
Eppure, quel fondatore lì, tanti anni fa, si era espresso in modo molto preciso: «La TAV ci costerebbe quarantasette miliardi di euro […] Abbiamo le ferrovie più vecchie d’Europa. Perché non le mettiamo a posto? […] Gli italiani sono spremuti come limoni dalle tasse, viaggiano sui treni locali come delle bestie e dovrebbero spendere una cifra pari a due/tre finanziarie per bucare un tunnel […]? La TAV è una voragine, un abisso». Una presa di posizione che aveva portato le bandiere dei NO TAV a presenziare ai V-day e a fidarsi di quel movimento che prometteva che mai si sarebbe realizzata la Torino-Lione con loro al governo.
Tutto ciò, però, è parso smaterializzarsi nel tardo pomeriggio di martedì 23 luglio, quando il Premier Giuseppe Conte durante una diretta Facebook ha comunicato che fermare l’opera costerebbe più che completarla e che la decisione finale spetterà al Parlamento, dove vige una netta maggioranza PRO TAV formata da Lega, PD, FI e FdI.
Nulla di sorprendente rispetto a quanto successo il giorno successivo che passerà alla cronaca come una delle giornate cruciali per il destino di questo governo. Il malcapitato Presidente del Consiglio, infatti, si è presentato dapprima alla Camera per il question-time sulla Torino-Lione, poi al Senato per riferire sul Russiagate. A Montecitorio non ha fatto altro che confermare quanto già dichiarato, rimarcando la ferma volontà della Francia di realizzare l’opera, suscitando – almeno in questa sede – l’incontenibile gioia del partito di Salvini che si è visto prevalere su quello che ormai potremmo definire l’avversario di governo, tant’è vero che Riccardo Molinari, capogruppo leghista alla Camera, ha chiesto che venga accantonata la stagione dei veti per dare vita alla seconda fase dell’esecutivo. Di fronte a cotante batoste, allora, il M5S ha reagito abbandonando i banchi del Senato quando il Premier ha cominciato l’informativa sul caso Salvini-Savoini.
Qui, il professore foggiano ha sostanzialmente ripetuto ciò che già si sapeva sulla presenza di Savoini a Mosca durante la visita dell’ottobre del 2018 e sul fatto che non avesse nessun incarico istituzionale, sottolineando inoltre di non aver ricevuto alcuna ulteriore informazione dal Viminale. Così, a seguito di dure contestazioni da parte del PD, il senatore della Lega Romeo ha giocato al solito gioco sostenendo che questo Paese va avanti se i politici fanno i politici e i magistrati fanno i magistrati, facendo riferimento anche al caso di Bibbiano e ai finanziamenti russi ricevuti in passato dal PCI. Un po’ come ha fatto il suo capo politico qualche ora dopo tramite un tweet in cui ha accostato la mozione di sfiducia chiesta dal Partito Democratico alle denunce di Carola Rackete, agli insulti dei centri sociali e alle minacce dei Casamonica. Giusto per buttare la palla in tribuna, visto che tutto fa brodo in una situazione parlamentare assurda dove c’è chi entra, chi esce e chi non si presenta proprio.
Perché il punto è questo: l’assenza tra i banchi del governo di Di Maio e di Salvini fa pensare che l’avvocato del popolo sia stato abbandonato per aver fatto un dispetto al primo, dando il via libera alla TAV, e un torto al secondo, adiratosi poiché il Premier ha riferito su una questione che, a suo dire, non avrebbe dovuto riguardarlo. Di qui, l’inevitabile scaricabarile: Conte ha ribadito che è stato cruciale l’atteggiamento deciso dai francesi ai fini della realizzazione del tunnel, mentre Di Maio ha annunciato che comunque in Parlamento i pentastellati voteranno contrariamente, quindi saranno gli altri partiti ad assumersi la responsabilità di dire di sì all’Alta Velocità. Tutto ciò pur di non ammettere che anche in questo caso erano state date delle garanzie insufficienti e che una forza politica che si era presentata alle elezioni urlando NO TAV è stata smentita da un Presidente del Consiglio indicato proprio dallo stesso movimento.
Schiumando di rabbia e uscendo dall’aula, ecco che allora i senatori grillini hanno teoricamente sfiduciato il loro capo di governo per aver riferito al posto di chi, a loro avviso e non solo, avrebbe dovuto già da tempo presentarsi in Parlamento per dare le necessarie spiegazioni. O, a pensar male, sono usciti da Montecitorio per protestare contro la decisione di Conte sulla TAV. In poche parole, sono tornati a fare opposizione, ma questa volta all’alleato e al Primo Ministro da loro scelto. Viene da chiedersi, quindi, quale delle due cose – in un Paese normale – sarebbe più clamorosa.