Sono anni, ormai, che si sente parlare di violenza di genere, femminicidio e revenge porn. Notizie di stupri e abusi, di omicidi domestici e costante discriminazione sono all’ordine del giorno. Non è chiaro se sia aumentata la tendenza a commettere crimini a sfondo sessuale o se, semplicemente, si sia iniziato a parlarne di più. Se così fosse, sebbene l’esistenza ancora tanto insistente di crimini di genere sia indicativa sulla radicalità della società patriarcale, la tendenza a discuterne dimostra anche una maggiore indignazione, che indica che qualcosa sta cambiando o che, per lo meno, ci sia voglia di cambiare.
Codice Rosso è il nome con cui è stato chiamato il decreto legge, recentemente passato al Senato, a difesa delle vittime di violenze domestiche e di genere. L’appellativo emergenziale con cui è stato nominato il decreto sottolinea l’urgenza a cui la nuova normativa cerca di rimediare. Il bisogno di una legislatura più esplicita e più severa sulla difesa di chi subisce, invece, punta il dito contro un problema ancora troppo grande, radicato e lontano dall’essere risolto.
Il provvedimento, proposto dal governo, è stato approvato dalla Camera con 380 voti a favore e 92 astenuti. Con nessun voto contrario, Codice Rosso è arrivato in Senato il 22 luglio scorso. Le pene previste dal decreto sono leggermente più severe per quanto riguarda i reati già riconosciuti. E se un piccolo aumento delle condanne non rappresenta necessariamente un modo efficace per risolvere il problema, sicuramente introduce un piccolo passo avanti e indica una maggiore attenzione su un tema sempre più grave.
Tra le maggiori novità ci sono i nuovi tempi d’azione. Al momento della denuncia di una qualsiasi violenza, la polizia giudiziaria dovrà comunicare le notizie di reato al magistrato in tempi brevissimi e le vittime dovranno essere ascoltate dal pubblico ministero entro tre giorni. A quanto pare, il fattore tempo si rivela fondamentale. Il provvedimento, quindi, dovrebbe fornire una corsia preferenziale alle vittime di crimini fino a ora trascurati. Una decisione che, però, lascia alcuni dubbi.
Tra gli altri cambiamenti, aumentano gli anni di detenzione per i reati di violenza sessuale (da 5-10 a 6-12 anni), stalking (da 6 mesi-5 anni a 1-6 anni) e maltrattamenti di familiari e conviventi (da 2-6 a 3-7 anni), con aggravanti in caso di maltrattamenti avvenuti in presenza o su minori, donne incinte, disabili o utilizzando un’arma. Viene introdotto anche un nuovo articolo sulle lesioni permanenti al viso per punire coloro che aggrediscono i partner con l’obiettivo di deformarne l’aspetto. Nasce, finalmente, anche il reato di revenge porn. Fino a ora, dell’atto di pubblicare immagini a contenuto sessuale, senza il consenso delle persone rappresentate, era sottovalutata la gravità, per questo sono state prese nuove misure a tutela delle vittime. È introdotto, poi, un emendamento che punisce chi induce qualcun altro a sposarsi. Il reato delle nozze forzate, inoltre, riguarda anche le unioni civili e punta a tutelare chiunque sia vittima di violenze, minacce e imposizioni religiose.
Il decreto, diventato presto legge, non ha però incontrato i favori di tutti i votanti. Molti degli esponenti della sinistra, ad esempio, sono stati criticati, data la scelta di astenersi dal voto, ma alla base di tale decisione c’è la convinzione dell’incompletezza del provvedimento. La deputata Laura Boldrini ha spiegato i punti in cui risulta inadatto. In primo luogo, in Codice Rosso non sono previsti investimenti per la formazione delle forze dell’ordine per un tipo di crimine che in realtà pochi conoscono davvero. Si tratta, dunque, di una legge che non apporta cambiamenti o sostegni finanziari, riducendone quindi l’efficacia. Inoltre, il termine dei tre giorni è considerato troppo rigido, un automatismo che rischia di non rispettare i tempi di cui ha bisogno la vittima e di appesantire il lavoro delle autorità senza introdurre le risorse necessarie affinché la scadenza sia rispettata.
Ma tra le più gravi mancanze di Codice Rosso, c’è l’assenza di un’indagine culturale. La nuova legge rappresenta sicuramente un passo in avanti nei confronti di pene e iniziative giudiziarie, ma non punta a risolvere il problema alla radice. Quella della superiorità dell’uomo sulla donna, dell’impunibilità dello sfruttamento fisico e psicologico e della sottomissione sono pratiche sociali culturalmente accettate ed è proprio nell’assetto culturale di un mondo fondato sul patriarcato che si nascondono i motivi per cui le violenze di genere avvengono. Questo decreto, quindi, con il suo debole tentativo di spaventare gli aggressori, ignora la necessità di un cambiamento che impedisca che l’idea di sottomissione – fisica, sociale, psicologica – continui a esistere.