Ci sono luoghi che valgono molto più di un biglietto di ingresso, esperienze che trascendono le quattro mura dalle quali vi si accede, passato e presente che si fondono per costruire il futuro. Parliamo del Jüdisches Museum Berlin, il museo ebraico più grande d’Europa, situato nel quartiere Kreuzberg di Berlino.
Progettato da Daniel Libeskind, architetto di origini polacche, figlio di una famiglia decimata dall’Olocausto, l’istituto è da giorni al centro della bufera per un conflitto, manco a dirlo, tra tedeschi ed ebrei. Uno scontro – per fortuna solo verbale – che ancora, a distanza di anni, mette i brividi come pochi altri.
La polemica è montata in seguito a un tweet condiviso dall’account ufficiale del museo che invitava alla lettura di un articolo redatto da circa 240 scienziati, israeliani ed ebrei, che criticavano il Bundestag, il Parlamento teutonico, reo di aver condannato il BDS, movimento internazionale a guida palestinese per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni nei confronti di Israele. Movimento che, a parere degli studiosi citati, non costituirebbe un’organizzazione antisemita. Il tweet contestato concludeva così: La decisione dei parlamentari tedeschi non aiuta nella lotta contro l’antisemitismo. Una frase non riportata tra virgolette che lasciava intendere che il Jüdisches Museum condividesse tale posizione. Da qui, l’inevitabile burrasca.
Il Consiglio centrale ebraico in Germania, infatti, attraverso il suo presidente Josef Schuster, ha accusato il sito culturale tedesco di propaganda filo-palestinese. Le reazioni, quindi, sono state immediate con il licenziamento in tronco della portavoce, autrice del post, e le dimissioni del direttore Peter Schaefer per evitare ulteriori danni al museo.
Già da qualche tempo, i rapporti tra il Jüdisches Museum e la comunità giudaica risultavano incrinati. Addirittura, avevano visto l’intervento del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, firmatario di un’ufficiale richiesta alla Cancelliera Angela Merkel e a Monika Grütters, Ministro della Cultura, di chiusura di una mostra, la Welcome Jerusalem, poiché riteneva che presentasse la città di Gerusalemme da una prospettiva troppo incline alla causa palestinese. La Merkel aveva rispedito l’invito al mittente ma, questa volta, considerando che il museo è finanziato per tre quarti con fondi pubblici, la questione è parsa ben più grave e nient’affatto procrastinabile.
Uno scontro con la comunità ebraica, d’altro canto, ancor di più se riguardante l’annoso conflitto israelo-palestinese, per un sito che mira a essere luogo di memoria, di esperienza di giorni che hanno segnato l’intera umanità, cambiandone il corso della storia, non è certamente auspicabile. Eppure, un tweet, probabilmente privo di alcuni segni di interpunzione, si è trasformato nell’occasione perfetta per aizzare una polemica, del tutto evitabile, finendo con il riscontrare in un alleato il nemico (un museo dedicato al proprio passato?).
Il Jüdisches Museum, chi ha avuto la fortuna di recarvisi lo sa, è molto più di ciò che ci si aspetterebbe. Un edificio dalla difficile accessibilità che punta, nell’estetica come nella concezione degli spazi, delle esperienze, dei percorsi da attraversare, alla ricostruzione del periodo probabilmente più tragico a cui la nostra mente è in grado di pensare.
Esternamente irregolare, tagliato da delle vere e proprie ferite nel blocco di zinco, al suo interno il polo si dirama in tre strade diverse, ciascuna percorribile senza un ordine preciso: l’Asse della Continuità, l’Asse dell’Esilio e l’Asse dell’Olocausto. La prima racconta la storia ebraica sin dalle sue origini. La seconda, invece, ricostruisce gli anni della persecuzione nazista fino al Giardino dell’Esilio, dove l’inclinazione del piano di calpestio mette a dura prova l’equilibrio del visitatore, a simboleggiare smarrimento e dolore. Ma inclinato è anche l’Asse dell’Olocausto, particolarmente impegnativo da percorrere poiché caratterizzato da notevoli sbalzi termici. Lungo il tragitto, numerosi oggetti appartenuti alle vittime della Shoah sono custoditi in teche lontane dai vetri opachi. Il corridoio conduce a una porta scura attraverso cui si accede alla Torre dell’Olocausto o Voided Void. La camera è completamente buia, se non per la luce che entra timida da una crepa nel soffitto, ed è spoglia di qualsiasi ornamento, tranne una scala irraggiungibile. Una torre che è metafora di un territorio di morte, simile nell’idea ai campi di concentramento e alle camere a gas, dove la vita era soltanto un lontano ricordo.
È chiaro come il Jüdisches Museum Berlin sia il luogo perfetto in cui immedesimarsi in un popolo, quello ebraico, che ha rischiato di perdersi nell’oblio. Il dolore, l’angoscia, lo smarrimento, il suono sordo delle facce di ferro urlanti che compongono l’istallazione dell’artista israeliano Shalechet, inevitabilmente calpestate come rotaie verso l’inferno, ne sono la prova più emblematica. Appare allora ancora più pretestuosa la polemica scatenata, spostando per un attimo l’annoso conflitto sviluppatosi proprio dopo la Seconda Guerra Mondiale – che ancora oggi miete migliaia di vittime senza soluzione alcuna – al centro dell’Europa. In Germania, poi.
Da quel giorno in cui Dio morì in un fazzoletto d’Oriente, il 15 maggio 1948, data della nascita ufficiale di Israele ricordata dai palestinesi come l’al-Nakba, la catastrofe, gli attentati, gli espropri, le minacce, il puzzo di sangue e polvere da sparo non hanno mai lasciato quelle terre. Nemmeno per un attimo, la paura ha traslocato dai cuori di chi ieri le abitava e da settant’anni è costretto a un esodo certamente non voluto che ha dato un volto nuovo ai carnefici, un volto tragicamente simile a quello che un tempo apparteneva alle vittime.
Soltanto nell’ultima settimana, nel quartiere di Sur Baher, in zona Gerusalemme est, ha avuto inizio la demolizione di numerosi edifici – ovviamente a firma Israele – a danno di famiglie palestinesi obbligate a lasciare le loro abitazioni. Uno smantellamento dovuto ufficialmente a motivi di sicurezza poiché gli stabili sarebbero troppo vicini al confine con la Cisgiordania occupata. I residenti, così come gli attivisti, sono stati trascinati fuori dalle proprie case in piena notte, sebbene le Nazioni Unite, dopo una visita da parte di diplomatici inviati dall’Unione Europea, avessero chiesto a Netanyahu di non procedere con la confisca. Ai giornalisti, intanto, è stato impedito di recarsi sul posto per testimoniare l’accaduto, non una novità quando a muoversi è la mano sionista.
Già lo scorso anno, l’area orientale della Città Santa era stata al centro del dibattito in seguito alla visita di Donald Trump e al dislocamento da Tel Aviv dell’ambasciata americana. Per l’occasione, infatti, il Presidente a stelle e strisce dichiarò di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico, rinnegando l’appartenenza palestinese della zona est, annessa al territorio giudaico in seguito alla Guerra dei Sei Giorni del 1967, con una mossa mai riconosciuta dalla comunità internazionale. In quei mesi, inoltre, si stava realizzando la Grande Marcia del Ritorno, un lungo cammino simbolico di natura pacifica e non militare voluto dagli espropriati affinché venissero loro restituite quelle che erano state le proprietà delle famiglie di origine prima dell’occupazione. Di certo, non il contesto ideale per esprimere un’opinione tanto forte.
Gli Stati Uniti, d’altra parte, non hanno mai nascosto la loro propensione filo-israeliana, un orientamento dalla notevole caratura che ha sempre spostato gli equilibri del mondo. Anche per questo, un conflitto con Israele e con la comunità ebraica non è mai furbo e augurabile. Lo scontro, infatti, sconvolgerebbe l’assetto planetario riportando indietro, e di troppe pagine, il calendario. Non a caso, anche questa volta, è rimasto inascoltato l’ennesimo appello di Abu Mazen, il Presidente dell’Autorità Nazionale palestinese che ha definito le demolizioni un massacro rientrante nella realizzazione del cosiddetto “Accordo del secolo” che mira alla liquidazione della causa palestinese, proposto proprio dall’amministrazione Trump e di cui, però, si sa ancora ben poco. Per Abu Mazen, inoltre, la pace sarebbe possibile soltanto mediante la costituzione di uno Stato palestinese indipendente con capitale a Gerusalemme est, un’idea di difficile attuazione – nonostante la Palestina sia riconosciuta da ben 138 Paesi nel mondo –, soprattutto oggi a distanza di ventisei anni dagli accordi di Oslo che definivano, appunto, le tappe per la creazione di una nazione fuori dall’egida israeliana.
Insomma, mentre nella Città Santa, a Gaza e in tutti i territori coinvolti in questa guerra sanguinolenta che indigna e turba molti – compresi gli organi di controllo e di garanzia della pace come dei diritti umani, ormai un sogno da quelle parti –, la comunità ebraica pensa bene di puntare il dito contro un museo, tra l’altro il più imponente d’Europa a essa dedicato, colpevole di aver espresso una propria opinione o di aver riportato male quella di qualcun altro. Uno schiaffo a chi tra quelle mura, a Kreuzberg, ogni giorno, al cospetto di milioni di visitatori, viene ricordato e celebrato affinché quelle atrocità non si ripetano. Almeno, proprio come un tempo, non dinanzi agli occhi dei figli della propaganda di regime. E, allora, chissà se un giorno in Germania o in qualsiasi altro punto nel mondo, un museo racconterà anche della Palestina.