Era quello il tempo migliore della mia vita e solo adesso che m’è sfuggito per sempre, solo adesso lo so.
Natalia Ginzburg è stata un’autrice di grande fama che ha cambiato e rivoluzionato il panorama della letteratura italiana del Novecento in merito al suo carattere acceso e dinamico, sia attraverso i propri scritti – ancora oggi oggetto di dibattito e di discussione – sia attraverso un femminismo affermato che portò lei e le donne della sua e delle generazioni successive ad avere più fiducia nel proprio modo di scrivere, spesso definito con un’aspra critica patetico e troppo passionale.
Centotré anni fa, Natalia nasceva il 14 luglio a Palermo, figlia di Giuseppe Levi, un professore universitario che insieme ai figli maschi fu imprigionato e processato con la pesante accusa di antifascismo, un’imputazione che catapultò la giovane in un clima ostile, spingendola a pensare riguardo a un tema particolarmente discusso in quel periodo e a stringere legami con i maggiori rappresentanti dell’antifascismo torinese, soprattutto con gli intellettuali della casa editrice Einaudi. La Ginzburg, dunque, trascorse la sua infanzia e l’adolescenza in uno stato di emarginazione nel capoluogo piemontese, trovando conforto nella penna, da sempre considerata un rimedio per aderire meglio alle sofferenze e chiudere gli occhi dinnanzi al male della società, per una scrittura tradotta come linguaggio interiore e anche metodo curativo per l’anima.
Il mondo di Natalia Ginzburg fu quello degli affetti familiari e delle abitudini borghesi inserito, spesso, in un contenitore denso di memorie, che seguiva un filo logico e continuo di eventi caratteristici della sua quotidianità. Esordì come autrice nel 1933 con il suo primo racconto, I bambini, pubblicato sulla rivista Solaria che annoverava tra i fondatori personaggi influenti dell’epoca come Eugenio Montale, Giacomo Debenedetti, Aldo Garosci e Leone Ginzburg, il marito della scrittrice che sarebbe morto nel 1944 torturato e ucciso nel carcere di Regina Coeli. Di Leone, la donna decise di mantenere il cognome firmandovi le opere, anche dopo il secondo matrimonio. Un primo amore abbastanza sofferto, come Natalia stessa sottolineò nel suo romanzo Lessico Famigliare, riferendosi – forse richiamandone l’interiorità – a Cesare Pavese:
Pavese non parlava quasi mai di Leone. Non amava parlare degli assenti, e dei morti. (…) tuttavia a volte soffriva per averlo perduto. Forse annoverava qualche perdita fra le cose che lo straziavano. E certo era incapace di risparmiarsi alla sofferenza, cadendo nelle più acerbe e crudeli sofferenze, ogni volta che s’innamorava. (…). Quella primavera, l’ultima primavera che Leone aveva lavorato stabilmente nella casa editrice, quando i tedeschi prendevano la Francia e in Italia si aspettava la guerra, quella primavera sembrava essere sempre più lontana.
Al 1962, invece, appartiene la raccolta dei racconti e saggi Le piccole virtù. Nel 1963, però, Natalia Ginzburg vinse il Premio Strega con l’opera sopracitata Lessico Famigliare, un memoir che fu accolto da un forte consenso di critica e di pubblico: l’opera, infatti, è la prima che scatta alla mente del lettore contemporaneo quando sente parlare di Natalia e la prima a cui vogliamo far riferimento noi ricordando la nascita della scrittrice.
Lessico Famigliare si mostra nella forma di un romanzo autobiografico, un forte peso di interiorità e sentimentalismo che caratterizzano una scrittura snella e fluida nei suoi diversi aspetti. Tradotto in molte lingue, tra le quali l’ebraico, il giapponese, il cinese e il coreano, il libro è ancora oggi preso in esame dagli studiosi che si inseriscono nella complessità delle dinamiche familiari raccontate dalla celebre autrice. Già dal titolo, la critica sottolinea come ella tendesse a far riferimento alla lingua parlata in una determinata famiglia, la sua, nella quale si componevano in un unicum varie frasi che giunsero poi a realizzare una vera e propria sintassi coincidente alla sua storia familiare. Una famiglia, quella di Natalia, che oggi potremmo quasi definire allargata per i personaggi che l’autrice volle far entrare e uscire dal suo romanzo – amici, conoscenti, personaggi influenti in ambito letterario – che consentono di tessere un filo che di volta in volta arriva a realizzare qualcosa di più ampio e complesso.
Potremmo definire il Lessico come un libro gremito di reticenti allusioni introdotte con quello che è lo scopo preciso di mostrare il disagio economico e sociale dell’Italia negli anni Sessanta, evidenziando soprattutto il forte antifascismo presente in casa Levi che sembra discendere da un’inclinazione morale o, appunto, da una tradizione di famiglia. La storia, ambientata tra le pareti domestiche, prende per mano giovani e anziani conducendoli per le vie sconosciute del mondo, segue i personaggi nel carcere o al confino e ne descrive l’entusiasmo dei ritorni concordandolo al dolore e allo strazio delle separazioni, affrontando anche in maniera cruda i temi, tanto trattati, dell’esilio e della morte. Se, per secoli e ancora oggi si dice che dopo Proust non esista un libro di memorie che non aspiri a presentarsi come tale, perché tutto viene inevitabilmente rarefatto, con Natalia Ginzburg questa tesi viene ribaltata poiché ella misurò le dimensioni esatte delle sue parole, valutandone il peso e la forma, osservando i medesimi colori e distinguendo le luci dalle ombre.
L’anno 1969 fu poi la svolta per la vita della scrittrice. Ai suoi 53 anni, infatti, morì il secondo marito, Gabriele Baldini. Questo momento, oltre a una seconda delusione in ambito matrimoniale, la sconcertò fortemente riguardo a una società che pareva andarle troppo stretta. L’Italia, intanto, era travolta dalla strage di Piazza Fontana, nel periodo cosiddetto della strategia della tensione, durante il quale Natalia Ginzburg intensificò il proprio impegno politico dedicandosi sempre più attivamente alla vita amministrativa e culturale del Paese, in sintonia con la maggioranza degli intellettuali italiani militanti orientati verso posizioni di sinistra. Natalia, dunque, nonostante vivesse in un contento arretrato in cui erano ancora presenti dei pregiudizi dettati dall’ignoranza nei confronti della donna che combatteva per i propri diritti, riuscì ad acquisire una posizione privilegiata all’interno della società, inserendosi pienamente in ambito politico e letterario.
Dopo una vita abbastanza travagliata, la scrittrice morta a Roma fra il 6 e il 7 ottobre del 1991, lasciò un segno indelebile nelle generazioni di scrittrici successive, immergendosi nella trattazione di temi crudi con pacatezza e determinazione.
Guardò anche oltre la sua vita, nei nostri giorni futuri, guardò come si sarebbe comportata la gente, nei confronti dei suoi libri e della sua memoria. Guardò oltre la morte, come quelli che amano la vita e non sanno staccarsene, e pur pensando alla morte vanno immaginando non la morte, ma la vita. Lui tuttavia non amava la vita, e quel suo guardare oltre la sua morte non era amore per la vita, ma un pronto calcolo di circostanze, perché nulla nemmeno dopo morto potesse coglierlo di sorpresa.