Il Mediterraneo non è, come di solito viene fatto erroneamente intendere, una semplice espressione geografica, bensì una fitta e intricata costellazione di miti, riti e liturgie intrecciate tra loro. Tra le sue stelle, la Sardegna è senza ombra di dubbio una di quelle più splendenti. Al centro dell’isola c’è Sedilo, in provincia di Oristano, con la sua Ardia, secolare bastione identitario eretto contro la liquidità del tempo, oltre che dello stesso mare, a custodia di una memoria tramandata sul filo di un νόμος (nòmos) posto “a cavallo” tra il sacro passato e un futuro un po’ più blasfemo, ma entrambi intrisi dello stesso profondo sentimento di una devozione popolare tutta isolana, oltre che isolata, vissuta e trasmessa in onore della figura di Costantino, Imperatore di Bisanzio.
L’Ardia di Sedilo è un’epoché radicata nella ripetizione di un copione sempre uguale, scritto per rivendicare il proprio diritto a restare, mettendo ogni volta in scena la stessa violenza bandita, resa mite dalla presenza di popoli avventori provenienti dai quattro angoli dell’Orbe, disposti lungo un percorso di profana redenzione in rumorosa assuefazione all’originario rispetto per un imperatore proclamato santo dopo aver vinto una battaglia, quella di Ponte Milvio, per mezzo della quale – a seguito della luminosa visione attraverso cui Dio in persona gli si palesò proclamando in hoc signo vinces – poté definitivamente prevaricare le truppe di Massenzio e, convertitosi alla nuova fede, emettere il suo famoso editto, nel 312 d.C., con cui cambiò la storia di Roma, che divenne così cristiana ed eterna, come dell’intero Occidente, all’insegna del sacro simbolo o signo, appunto, del XR (Chi-Rho), temibile effige imperiale coincidente con l’idea di quel Christos (Unto) in cui tutti i cristiani, proprio a seguito e grazie all’editto costantiniano, poterono iniziare a credere alla luce del sole.
Vivere l’Ardia è come piombare in un quartiere periferico del Villaggio Globale, disconnesso per il tempo che basta a riprendersi una terra da cui normalmente ci si allontana per inseguire le leggi sradicanti di una modernità mercantile che qui viene invece messa teatralmente in pausa, oltre che in discussione, attraverso il crepitio degli zoccoli di cento cavalli e altrettanti cavalieri vestiti di bianco che rincorrono l’Imperatore, rappresentato dalla prima pandela (bandiera), portata avanti al galoppo in segno di vittoria insieme a due fedeli seguaci accuratamente prescelti tra tutti, ovvero la seconda e la terza pandela. A loro volta, sia la seconda che la terza pandela sono coadiuvate ognuna da altri due seguaci armati di nerbo, utilizzato per impedire a cavalli e cavalieri inseguitori di superare la linea dell’Imperatore. Chi ci prova rischia ogni sorta di fustigazione in corsa nonché la morte.
L’Ardia o S’Ardia (in lingua sarda), è dunque un mondo fisso, animato da ritualità irrinunciabili e ripetute sempre platealmente uguali nei secoli. Ogni anno la prima pandela viene nominata dal parroco del paese sulla base di un registro a cui ciascun bambino o bambina sedilese si iscrive in età pre-adolescenziale e vive gli anni successivi in attesa del proprio turno, che lo o la poterà a sollevare al cielo e porgere in adorazione a beneficio della folla dei devoti la prima pandela, ovvero quella portata in rappresentanza del Santo.
Intanto lì, sulla montagna, prima in salita poi in discesa verso il paesaggio mozzafiato attraverso un arco strettissimo, dove in passato l’Ardia ha mietuto persino qualche vittima, e poi nuovamente in salita, i cavalieri si rincorrono partendo lanciati lungo declivi con pendenze da brivido, al galoppo verso il tempio eretto in onore del Santo Imperatore, intorno a cui fare tre, cinque, sette giri, se non di più, l’importante è che siano di numero dispari e in senso antiorario e infine ripartire in sordina senza che il resto del mucchio selvaggio se ne accorga, per non farsi raggiungere, fino ad arrivare giù a valle intorno alla rotonda con al centro posta la croce dedicata a Costantino, dove ai cavalli si sono precedentemente mescolati i pellegrini, per effettuare giri sempre in senso antiorario e in numero rigorosamente dispari fino a concludere l’ultimo girone penitente con inchino e il gesto automatico della croce tra capo e sterno.
Prima che tutto questo avvenga però, il sindaco e il parroco del paese, dopo aver benedetto le tre pandele tra gli spari di fucili che paiono ruggire per avvisare dell’arrivo della processione equestre, giungono dinanzi alla chiesa anticipando l’arrivo della S’Ardia con tutta la sua vis frenetica, allorché si para davanti agli occhi di chi osserva un’immagine da romanzo collodiano in cui due carabinieri a cavallo scortano le suddette autorità fino alla casa eretta in onore del Santo in rappresentanza di un intero popolo, che di lì a poco diventerà tutt’uno con cavalieri, urla, fragore di fucili impazziti a salve e polvere, tanta polvere di terra oltre che da sparo, tra mogli, figli e figlie che liturgicamente piangono gonfiando il petto dall’emozione, cavalieri in estasi e una calca spettatrice ebbra di alcool e di fede indiscussa concentrata lì, intorno a quel circuito in pendenza affacciato sul lago formato dal fiume Tirso, scenografico sfondo connaturato alla schizofrenica rappresentazione che poco più in su delle sue sponde prende anima e corpo.
È un’incruenta corrida suddivisa in due atti, il primo si svolge di sera, immersa nel delirio di una bolgia più festante che devota, il secondo è costituito invece dalla corsa dell’indomani mattina, messo in scena a beneficio di un pubblico più esperto e anche meno nutrito, ma rapito da uno spettacolo in cui l’uomo non è in lotta con l’animale, bensì in simbiotica alleanza, epifania romantica di un mondo che non vuol rinunciare alla sua adrenalina né alle sue lacrime.
L’ultima vittima l’Ardia la fece in occasione della gara serale antecedente quella di un mattino di dieci anni fa. Dopo aver chiesto al sindaco di allora se fosse il caso o meno di proseguire con i giochi, la risposta fu: «Ognuno di noi ha la propria sorte, l’Ardia non si può fermare!». A suo modo, quel sindaco aveva ragione, l’Ardia è ancora lì e noi sempre qui, in attesa di poter essere risucchiati ancora una volta tra le sue amniotiche spire.
L’Ardia di Sedilo è una goccia di resistenza che ogni anno cade nel mare di una tranquillità patologica, che vede come dirimente medicina o il doloroso abbandono chiuso nel bagaglio a mano di chi parte o la laica richiesta di salvezza vissuta nel più profondo del cuore da parte di chi aspetta il proprio turno, quale demiurgico appiglio per il futuro di un popolo stanco, come molti altri al mondo, di dover fuggire e al tempo stesso aperto al visitatore che dovesse arrivare e decidere, casomai, di voler restare.