Un giorno, o l’altro è un romanzo scritto da Tommaso Borrelli, edito dalla casa editrice Kairós, che racconta di un insegnante quarantenne della provincia napoletana e dei suoi tentativi di evadere dalla monotona routine quotidiana.
Il protagonista, di cui non si fa mai il nome, è un tipico antieroe. Un personaggio negativo, cinico, inappagato dalla propria vita ma allo stesso tempo incapace di migliorarla. Giovanili ambizioni letterarie sfumate in un semplice ruolo da docente. Un matrimonio costellato di bugie e tradimenti. Il ricordo invasivo di tempi brillanti e vissuti a pieno ma ormai tramontati, e poi un fantasma lontano, Alice: l’unica donna che sia mai stata capace di lasciargli il segno.
Intrappolato nei sogni e nelle aspirazioni del passato, in ciò che sarebbe stato se avesse fatto scelte diverse, l’uomo vive rinchiuso in una sua dimensione personale in cui forse un giorno, o l’altro qualcosa cambierà, ma quel giorno non arriva mai. E se normalmente, a un certo punto della storia, la finzione narrativa interviene per donare al lettore il lieto fine di cui ha bisogno, in questo caso nessun artificio romanzesco irromperà a salvare il racconto. Il disagio esistenziale del protagonista rappresenta l’insoddisfazione di un uomo comune e la narrazione – dissacrante, cruda, a tratti frustrante – non è altro che la descrizione esatta e non edulcorata di ciò che molto spesso accade oggi nella realtà.
Tommaso Borrelli nasce nel ’78, in provincia di Napoli, dove risiede tuttora. Dopo aver studiato letteratura e teatro, oggi insegna materie umanistiche in una scuola media, proprio come il protagonista del suo libro. Che sia un caso? Ce lo ha svelato lui stesso.
Ci racconti cosa è per te questo romanzo e da cosa nasce?
«Un giorno, o l’altro è nato dal bisogno, che avevo, di leggere qualcosa di diverso dai libri che normalmente mi capitavano. Volevo un romanzo in cui non vi fosse un intreccio prestabilito, in cui la mano e l’intervento dello scrittore fossero meno evidenti e gli eventi nascessero in modo spontaneo, quasi caotico. Anche a costo di deludere le aspettative classiche del lettore. Ad esempio, mi chiedevo, perché nei romanzi normali le storie d’amore hanno tutte uno sviluppo simile, tramite il quale chi legge si sente in qualche modo gratificato? Non si può scrivere, invece, una storia sentimentale che per il lettore risulti deludente e irritante? Cosa che, secondo la mia esperienza, è molto più aderente alla realtà. Insomma, cercavo un romanzo senza romanzo! Non trovandolo, ho deciso di scriverlo da me».
Il protagonista del libro sembra avere con te parecchi punti in comune: la passione per la letteratura, per il teatro, la vita di provincia, la professione di insegnante. Quanto c’è di te in lui? Si può definire, la tua opera, un’autobiografia?
«Il rapporto tra me e il protagonista è molto particolare. Il suo involucro, per così dire, è autobiografico: facciamo lo stesso lavoro, abbiamo più o meno la stessa età, ci muoviamo negli stessi ambienti e abbiamo fatto studi simili. Le sue opinioni, in qualche modo, sono le mie, anche se molto estremizzate (come ad esempio quelle sulla scuola). Anche alcuni aspetti caratteriali sono paragonabili. Solo che, a un certo punto, questi punti di contatto diventano tanto estremizzati da perdere aderenza con la mia vicenda personale. Con il tempo, infatti, mi sono accorto che più che la semplice trascrizione autobiografica, era interessante la possibilità di intervenire sul passato. L’opportunità di correggerlo, di modificarlo, di fare i conti con persone ed eventi che a distanza di anni non mi andavano giù. Il romanzo è diventato perciò una macchina del tempo, un modo per poter dare finalmente quella risposta là dove tanti anni prima mi era mancata, o compiere quel gesto che avrei dovuto fare e non ho fatto. Un’autobiografia? Forse un’autobiografia bugiarda».
Gli altri personaggi, invece, sono esclusivamente frutto della tua immaginazione o anche per loro hai tratto ispirazione da persone reali, incontrate durante la tua vita?
«Non credo possano esistere personaggi o storie che siano frutto esclusivamente della propria fantasia. Freudianamente, credo che in ogni cosa che realizziamo mettiamo qualcosa di noi stessi. Quindi, anche gli altri personaggi del romanzo sono derivati dalla mia esperienza, in misura maggiore o minore. Per il personaggio di Alice, posso dire che è al 90% reale. Da anni non ho più contatti con quella persona e probabilmente ora vive all’altro capo del mondo, ma sicuramente se le dovesse capitare il mio libro tra le mani non avrebbe difficoltà a riconoscersi. Casares, invece, è un professore universitario napoletano piuttosto noto, che ancora oggi mi onora della sua stima e oso dire amicizia. Un incontro fondamentale per me e per la mia formazione. Il capitolo a lui dedicato è stato un omaggio scherzoso, un riconoscimento sbilenco, obliquo, di stima e di affetto. Non dimenticherò mai il momento in cui gliel’ho sottoposto: il caro prof. si è divertito tantissimo nel “leggersi”, ed è stata per me una soddisfazione, ma soprattutto un sollievo! Gli altri personaggi sono meno aderenti a un modello unico, a un personaggio reale. Sono più un insieme di tratti reali di persone esistenti combinati tra loro».
Un giorno, o l’altro è la perfetta rappresentazione di una realtà generazionale, quella degli anni Ottanta, epoca in cui i valori tradizionali del lavoro e della famiglia non sono più stati il massimo a cui aspirare per la propria vita, ma si sono trasformati in una gabbia inevitabile da cui fuggire. Cosa, secondo te, a un certo punto è andato storto? Da cosa nasce effettivamente quest’insoddisfazione?
«Spiegare la causa del disfacimento che ha investito una generazione, la mia, è al di fuori della mia portata. Probabilmente bisognerebbe analizzare il settore della politica, della coscienza sociale, dell’economia, delle ideologie. Fior di studiosi hanno sviscerato questi aspetti e ancora lo fanno. C’è una grande differenza tra descrivere e analizzare, io in fondo ho solo raccontato un aspetto di questa disfatta. Con i miei limitati mezzi ho dipinto il quadretto di un fenomeno molto più grande, senza conoscerne i motivi e le cause. Il protagonista che ho creato è il proseguimento ideale del personaggio novecentesco, quello di Svevo, di Pirandello. Costituisce la sua evoluzione o, per meglio dire, degenerazione. La sua è un’identità liquida, come avrebbe detto Bauman. Indecisa, contraddittoria, priva di una morale solida».
Il protagonista vive e sopravvive all’interno di un limbo di frustrazione, di non realizzazione, perennemente incapace di fare quel passo in più, di darsi la spinta necessaria utile al cambiamento. Cosa consiglieresti al tuo stesso personaggio?
«Al protagonista non consiglierei proprio nulla, anzi, non vorrei proprio averci a che fare: non vedevo l’ora di finire il libro perché non lo sopportavo più! Gli suggerirei di sparire, al limite, di non farsi più vedere. Forse, se non mi fosse tanto antipatico, ecco, per amicizia, potrei consigliargli di farsi visitare da uno bravo, di intraprendere un percorso di psicoterapia. Oppure di uscire, fare qualcosa di reale nella società. Per esempio impegnarsi in politica, qualcosa che possa staccarlo da quella sfera di cinismo e recriminazione. E forse nemmeno sarebbe abbastanza. Come detto prima, per farlo uscire dal suo inferno privato bisognerebbe capire a fondo che egli non è altro che un esponente della sua generazione, e la sua generazione, chi più chi meno, si trova a vivere nella stessa palude di noia e insoddisfazione. Sono fenomeni complessi, bisognerebbe analizzarli a fondo prima di trovare una soluzione».
Il finale di Un giorno, o l’altro è un finale a sorpresa, ma che lascia anche una porta aperta. Stai pensando a un sequel?
«Il finale sospeso è stato percepito anche da altri lettori come un invito a un sequel. Qualcuno di loro me l’ha proprio chiesto esplicitamente, il continuo della storia. In realtà non credo che ci sarà, per vari motivi. In primo luogo, proprio come il protagonista, mi annoio facilmente. In secondo luogo. i personaggi di Un giorno, o l’altro sono per loro natura indecisi, incompleti, quindi sarebbe stata una forzatura dargli un epilogo rigido e ben definito. Il finale in effetti è anche uno sberleffo al lettore (uno dei tanti che ho disseminato nel libro), per tradire le sue attese, per non dargli soddisfazione, per smontarlo sul più bello. Una storia fondata sullo straniamento e sull’incompiutezza non poteva avere una conclusione classica, no?».
Contributo a cura di Federica Brosca