Contributo a cura di Pierluigi Del Pinto
Boston, 10, 11 e 12 giugno. Presso la Northeastern University si è svolta la Seconda Conferenza sulle Sostanze Per e Polifluoroalchiliche, più conosciute come PFAS. Alla conferenza hanno partecipato scienziati e ricercatori, provenienti da diversi Paesi, e gruppi statunitensi di denuncia e di mobilitazione contro gli effetti di queste sostanze sulla salute.
Mar dei Sargassi si è occupato del tema dell’inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche in Veneto il 15 aprile scorso dove si dava conto dell’esperienza di lotta e di organizzazione sorta per merito di un gruppo di mamme dei comuni interessati: le Mamme NO PFAS. Esse hanno avuto il grandissimo merito di porre all’ordine del giorno di tutte le istituzioni – a livello locale, nazionale ed europeo – la questione PFAS, ovvero le gravissime conseguenze sulla salute causate dall’inquinamento di una delle falde più grandi d’Europa a opera di un’azienda, la Miteni, che lavorava con le molecole incriminate. Hanno portato le loro voci dovunque fosse opportuno farsi sentire, da Strasburgo a Roma, dal Papa, e a giugno negli States, alla Conferenza di Boston.
Abbiamo intervistato Laura Facciolo che ha rappresentato le Mamme NO PFAS venete alla manifestazione d’oltreoceano.
Chi è Laura Facciolo e perché è stata invitata, unica straniera, alla Conferenza di Boston?
«Sono mamma di 3 bambini e abito a Montagnana (provincia di Padova) nella famigerata Zona Rossa della contaminazione da PFAS da 10 anni, cioè proprio da quando stavo per diventare per la prima volta genitore. Sono anche un chimico farmaceutico e mi occupo di studi clinici oncologici da 15 anni. Nel 2017 sono venuta a conoscenza della problematica di inquinamento da PFAS e da allora, complice anche la mia formazione scientifica, ho cercato di capirne le cause e di proteggere i miei bambini dai potenziali danni derivanti dall’esposizione a queste sostanze. Insieme ad altre persone della mia città, ho fondato il Comitato ZERO PFAS Montagnana, uno dei gruppi più attivi nel panorama dei gruppi NO PFAS che fanno parte del grande movimento delle Mamme NO PFAS. A Boston, dal 10 al 12 giugno, si è svolta la Seconda Conferenza Nazionale sulle Sostanze Per e Polifluoroalchiliche e io non ero l’unica straniera in assoluto (visto che erano presenti scienziati provenienti da diversi Paesi), ma ero certamente l’unica rappresentante di una comunità contaminata proveniente dall’estero. Dal 2017, infatti, ho immediatamente iniziato a cercare di capire come era la situazione PFAS al di là dei confini nazionali, arrivando a conoscere esponenti di comunità contaminate dapprima in USA ma poi anche in Olanda e Australia, per cercare di scambiare informazioni e comprendere le incredibili similitudini delle nostre vicende, sebbene svoltesi a migliaia di chilometri di distanza. Essendo il nostro probabilmente il più vasto territorio contaminato da PFAS di tutto il mondo in termini di popolazione colpita (350mila persone impattate ma numeri destinati a crescere) ed essendo diventato il gruppo Mamme NO PFAS molto attivo anche a livello internazionale (ricordiamo i viaggi a Bruxelles e Strasburgo dello scorso anno), l’interesse verso la nostra vicenda è iniziato a crescere sempre di più e, grazie ai social network (principalmente Facebook), abbiamo avuto modo di far conoscere tutte le nostre iniziative a un pubblico sempre più numeroso. Ho iniziato così a essere invitata a teleconferenze con gruppi americani e australiani per condividere non solo le storie di contaminazione ma soprattutto le informazioni relativamente ai dati sanitari. La nostra testimonianza, ma soprattutto i valori di PFAS riscontrati nella nostra popolazione hanno immediatamente creato grande interesse. A marzo di quest’anno ho poi ricevuto l’invito a partecipare alla Conferenza di Boston, per far conoscere a un pubblico più vasto la questione che ci riguarda».
Quali erano gli obiettivi della Conferenza di Boston?
«Tre giorni di aggiornamento a 360 gradi sulla situazione della contaminazione da PFAS e sui suoi molteplici effetti sulla salute umana, organizzati presso la Northeastern University di Boston dalla collaborazione di diversi scienziati, università e organizzazioni che da anni lavorano duramente per fare chiarezza su questo tema: erano presenti molti esponenti di comunità contaminate (io ero una di questi), ma anche moltissimi ricercatori e scienziati che portavano i risultati delle loro ultime scoperte in merito».
Come valuti i risultati della Conferenza?
«Parlando con gli organizzatori della Conferenza c’è moltissimo entusiasmo perché, rispetto alla precedente edizione svoltasi nel 2017, sono praticamente raddoppiate le presenze e l’interesse sul tema è in continua crescita. Si sono create moltissime nuove collaborazioni i cui frutti saranno certamente visibili nel prossimo futuro».
In che modo i suoi risultati possono agevolare il percorso del movimento delle Mamme NO PFAS?
«Come a ogni conferenza che si rispetti, anche a Boston c’è stato modo di conoscere in prima persona non solo attivisti ma soprattutto scienziati di fama internazionale. Il confronto diretto con personalità dall’estero permette di avere in tempo reale le informazioni sulle novità relative a questo tema, e senza filtro interposto. Ad esempio, a oggi sappiamo che negli USA cercano 22 PFAS nell’acqua mentre da noi sono fermi a 12. Sappiamo che c’è grande interesse e lavoro sul tema della contaminazione da PFAS dovuta all’utilizzo delle schiume anti-incendio nelle basi militari, aeroporti, stazioni dei Vigili del Fuoco. Molti gruppi di attivisti sono composti, infatti, da familiari di Vigili del Fuoco che hanno sviluppato il cancro probabilmente per l’esposizione ai PFAS presenti nelle schiume anti-incendio e nelle loro speciali tute protettive. Negli Stati Uniti ormai l’interesse si è spostato totalmente verso i nuovi PFAS, composti da nomi completamente sconosciuti qui da noi, ma semplicemente perché da noi purtroppo non vengono (ancora) cercati. Lì, inoltre, c’è da sempre un elevato interesse per la contaminazione dell’aria, visto che non solo le aziende produttrici, ma anche le discariche e i depuratori rilasciano notevoli quantità nell’aria di queste sostanze, che poi ricadono sul suolo con le precipitazioni, contaminando il terreno e i corsi d’acqua. Ricordiamo a titolo informativo la situazione italiana: fino al 1990 Miteni era autorizzata a emettere fino a 15 kg all’ora di queste sostanze nell’aria. Immaginate quante tonnellate negli anni di emissioni di sostanze nocive! Nonostante ciò, da noi in Italia il problema aria non è praticamente considerato.
Dopo la mia presentazione, insieme a tanti giornalisti, attivisti e ricercatori che sono venuti a chiedermi ulteriori informazioni sulla vicenda veneta, si è presentato e ha voluto conoscermi persino un rappresentante di Chemours (una delle aziende che producono PFAS da decenni), dicendo che la storia che avevo presentato era veramente molto interessante. Insomma, ho conosciuto il nemico, sì, ma anche questa conoscenza si è rivelata subito preziosa visto che gli ho chiesto immediatamente informazioni sugli standard analitici delle molecole di loro produzione. Tutte queste esperienze permetteranno a noi, Mamme NO PFAS, di muoverci in direzioni fino a ora inesplorate e di non fermarci alle tante mezze verità che normalmente ci vengono propinate (e che mai abbiamo digerito)».
Con quale stato d’animo sei tornata in Italia?
«Durante il viaggio di ritorno ho provato un’emozione fortissima e mi sono sentita immensamente fortunata per l’incredibile opportunità che mi è stata data. Ero incredibilmente felice per il fatto di aver conosciuto persone straordinarie come la dottoressa Arlene Blum (scalatrice, scienziata e fondatrice del Green Science Policy Institute), la professoressa Linda Birnbaum (tossicologa, microbiologa direttrice del National Institute for Environmental Health Sciences), la nota giornalista Sharon Lerner, autrice per The Intercept di una serie intitolata DuPont e la chimica dell’inganno, la dottoressa Gretta Goldenman che si occupa da anni di PFAS e ha pubblicato un interessante e molto scomodo lavoro che si intitola The cost of inaction (Il costo dell’inattività), con cui ha cercato di computare i costi socioeconomici dell’impatto dei PFAS sui Paesi europei, ovvero il costo per non aver fatto nulla per bloccare e impedire che i PFAS diventassero un contaminante globale. Nell’analisi fatta dalla Goldenman non poteva mancare il Veneto e i numeri che ci appartengono: 900mila euro all’anno per i sistemi di filtrazione, 4.2 milioni di euro di spesa in 5 anni per migliorare gli impianti di trattamento dell’acqua e 61.7 milioni di euro per le nuove fonti. Nel report c’è anche l’elenco di tutte le attività che possono utilizzare ed emettere PFAS: dagli stessi impianti di trattamento delle acque (dove vanno a finire i filtri?), agli aeroporti, alle basi militari, alle stazioni VVFF, alle discariche, agli inceneritori e ad almeno 15 tipi diversi di aziende (tessile, conciario ma anche tappeti, pitture, cosmetici, elettronica, fotografia, trattamenti di metalli, ecc). In effetti, negli USA hanno già mappato tutti i possibili siti contaminanti. Ci arriveremo anche noi, forse tra una decina d’anni, come sempre accade quando si tratta di recepire le novità che arrivano da oltreoceano.
Nelle conclusioni della Goldenman si legge: A causa dell’estrema persistenza dei PFAS nell’ambiente, questa contaminazione resterà nel nostro pianeta per centinaia se non migliaia di anni. L’esposizione umana e ambientale continueranno, e gli sforzi per mitigare l’esposizione porteranno a notevoli costi socioeconomici, costi che saranno sostenuti in larga misura dai governi e dai contribuenti. Per quanto concerne i costi sanitari DAI 52 AGLI 84 MILIONI ALL’ANNO per tutti i Paesi europei e per quanto riguarda i costi non sanitari arriviamo a numeri da capogiro, che si aggirano attorni ai 2 MILIARDI DI EURO/ANNO.
Infine, ho avuto il piacere di conoscere il Prof. Philippe Grandjean, uno degli organizzatori della Conferenza che, oltre a essere un simpaticissimo signore, è probabilmente lo scienziato che più di ogni altro ha studiato gli effetti dei PFAS sul delicato organismo dei bambini. Sue sono le tantissime pubblicazioni scientifiche che ho letto in questi anni. Grazie a un comune contatto americano avevamo iniziato a scriverci qualche e-mail già all’inizio di quest’anno, ma l’emozione di poterlo vedere di persona, parlarci, confrontare le mie idee con le sue è stata immensa».
In conclusione, che valore ha avuto per te questa esperienza a Boston?
«Tanti impazziscono quando vedono un cantante o un calciatore: ecco, io invece sono letteralmente sulle stelle quando ho modo di conoscere queste menti illuminate e tante, tantissime persone che stanno facendo del loro meglio per lasciare un mondo migliore di quello che hanno trovato. Questi incontri, queste grandi menti e la passione che ho visto infondere in questa causa, mi donano la forza di continuare a lottare».