Chiamato lo scorso febbraio dall’editore De Benedetti, a seguito della direzione di Mario Calabresi, Carlo Verdelli è da poco più di quattro mesi il quarto direttore di la Repubblica, uno dei quotidiani più discussi e attaccati degli ultimi tempi, in particolar modo dal gruppo pentastellato. Nella sua onorata carriera quarantennale, ha diretto molte testate nazionali, corteggiato spesso da nomi autorevoli del giornalismo italiano, come Paolo Mieli che nel 1994 lo volle alla guida di Sette, il settimanale del Corriere della Sera.
Verdelli che, al pari di un Re Mida dell’informazione, ha trasformato in oro tutto ciò che ha diretto, come si evince dai risultati del rilancio di Vanity Fair sotto la sua direzione dal 2004 al 2006, è stato scelto da De Benedetti per conferire nuova autorevolezza al giornale con il quale ha dato il via alla sua professione. Abbiamo avuto modo di incontrare il direttore nel suo ufficio presso la sede di Roma del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, dove abbiamo parlato di fake news, di giornalismo cartaceo, di come durante la sua carriera, come lui stesso tiene a precisare, si sia sempre dimesso ma anche di quando, appena 21enne, è stato assunto nella redazione milanese de la Repubblica, redazione che in realtà ci ha raccontato essere all’epoca un semplice appartamento di appena 4 stanze.
Direttore, la Sua carriera giornalistica è iniziata sulle pagine milanesi de la Repubblica, quotidiano che dirige dallo scorso febbraio. Che emozione ha provato alla nomina?
«È la chiusura di un cerchio, di una carriera molto lunga cominciata molto presto. Nel 1979 alle pagine milanesi de la Repubblica, che era nata da poco più di tre anni, cercavano ragazzi che avessero voglia di fare piccoli pezzettini e io mi presentai. Il caporedattore dell’epoca, Giampiero Dell’Acqua, che si occupava di reclutare dei giovani, mi fece fare dei brevi articoli e da lì è incominciata la mia strada professionale, avevo 21 anni. Adesso che ne ho 40 di più mi è arrivata questa proposta da parte dell’editore. Ho cominciato così, a la Repubblica, e adesso mi trovo alla fine della carriera a dirigerlo.»
Avendo iniziato da la Repubblica, sente una maggiore responsabilità adesso che ne è il direttore?
«No, assolutamente. Avrei messo lo stesso impegno per qualunque giornale mi fosse capitato di dirigere.»
Come mai, negli ultimi tempi, il giornalismo su carta è in forte crisi?
«È una crisi che riguarda un cambio di civiltà. Siamo passati da una civiltà post-industriale a una digitale: questo ha comportato un’infinità di cambiamenti nella vita delle persone, nel modo in cui organizzano le loro giornate. Lo smartphone ha sostituito molteplici funzioni che venivano ricoperte in parte anche dai giornali su carta. Adesso ti colleghi con il cellulare alla mattina e hai disponibili tutte le cose che ti interessano, questo sia in Italia che nel mondo. Un cambiamento di civiltà comporta anche un cambiamento di abitudini, si tratta quindi di adeguarsi. Bisogna sviluppare molto il marchio, nel mio caso la Repubblica, su tutti gli altri device dove la gente lo frequenta. Ad esempio, sul sito abbiamo una media di 4 milioni di utenti unici al giorno, con una sezione anche a pagamento. Il futuro prossimo va lì, è un dato di fatto che le edicole sono dimezzate nel giro di 10 anni mentre continuano ad aumentare gli accessi alle piattaforme digitali. Il problema è avere un marchio forte che precisi qual è la sua missione informativa e trasportare i ricavi in prospettiva nel mondo digitale. In tutto questo, però, non c’è un giornalismo di serie A, su carta, e uno di serie B, sul digitale, noi cerchiamo di fare del buon giornalismo sperando di garantire a la Repubblica altri 43 anni di vita.»
Secondo Lei, nel corso degli anni la Repubblica ha perso quell’identità forte che l’ha sempre contraddistinta?
«I giornali italiani in generale sono rimasti un po’ sorpresi da questo cambiamento di civiltà. La Repubblica, pur essendo stato il primo gruppo editoriale italiano a intuire che sarebbe cambiato il mondo con la creazione del laboratorio digitale Kataweb, certamente ha perso un po’ di centralità nel panorama informativo, come tanti altri, e il mio compito è provare a ridargliela. Sai, quando si perde quota le ragioni sono tante. Si fa molto più in fretta a cadere che a risalire, ma lentamente, con molta ostinazione, proveremo a risalire.»
Oltre alla creazione di una nuova versione, qual è il Suo progetto per dare nuova vita al quotidiano?
«Fare un giornale il più possibile indispensabile ai lettori, che sia chiaro, rintracciabile. Un giornale moderno e democratico, perché questa è la storia di la Repubblica, non l’ho definita io, ma Scalfari 43 anni fa. Anche nel cartaceo, per esempio, non c’è una notizia che ha più valore di un’altra. Il lettore, tra gli infiniti diritti che ha, deve aprire il giornale dove vuole, dalla pagina 1 alla 48, e dove lo apre deve farsi l’idea di tutto il giornale. Essere la Repubblica dalla pagina 1 alla 48 insomma, una linea coerente soprattutto nel linguaggio.»
Quando ha presentato la nuova versione de la Repubblica ha affermato che in caso di vento forte bisogna alzare la voce. In questi tempi critici, è l’unica soluzione che ci è rimasta?
«No, non è l’unica, è la mia soluzione nella situazione nella quale ci troviamo oggi, con un governo come quello che abbiamo, con questi forti venti di contrapposizione che si stanno creando in Italia. Penso che un giornale come la Repubblica, nel campo democratico, abbia il dovere di far sentire la sua voce. Detto più tecnicamente, alzare la voce significa fare una prima pagina con meno titoli, più chiari, più grandi, dove si cercano di evitare le sigle. Usare anche molto le firme, perché questo è un giornale di firme. Se vedi la prima copia di la Repubblica, le firme sono molto grandi ma non perché erano giornalisti che volevano mettere in risalto la loro bravura, piuttosto era un modo per Scalfari di dire che loro ci stavano mettendo la faccia, per questo le ho riproposte.»
Pensa che nel nostro Paese ci sia, e ci sarà ancora, la libertà di stampa?
«Assolutamente sì. Questo è un Paese che ha dimostrato di avere in tutta la sua storia un forte radicamento democratico. La libertà di stampa è una delle condizioni primarie della democrazia, per me è una condizione sine qua non per fare questo mestiere. Pur essendoci dei venti un po’ preoccupanti, non penso che quella libertà di stampa possa venire messa a tacere o fatta arretrare e comunque, ove mai fosse qualcuno che ci prova, sicuramente troverà in la Repubblica un avversario duro da affrontare.»
Lei nella Sua carriera si è sempre dimesso: la libertà a volte passa attraverso le dimissioni?
«Le dimissioni sono un istituto di protezione. Ho sempre concepito il mestiere di giornalista come un privilegio che però ha anche degli obblighi verso i lettori. Quando ti pare che non ci sia più sintonia tra quello che desidera l’editore e quello che tu invece pensi sia meglio per i lettori, siccome non si può cambiare l’editore, te ne vai tu, questa è la ragione per cui mi sono dimesso. Altre volte, invece, perché mi offrivano una sfida che mi sembrava più interessante. Dalla RAI mi sono congedato perché eravamo stati ingaggiati per cambiare il mondo dell’informazione della tv di Stato, ma quando ho capito che non era possibile, il mio compito a quel punto diventava ornamentale e a me non piace stare nei posti come un ornamento.»
Come si possono combattere le fake news?
«Alcune sono figlie della fretta, degli errori, dell’approssimazione ed è compito dei giornali più grandi e strutturati combatterle. Ce ne sono alcune, però, che purtroppo sono messe in circolo ad arte nelle arene virtuali che fanno parte del mondo della propaganda a favore di qualcuno e contro qualcun altro. Il giornale che sto dirigendo ha come primo comandamento quello di fare informazione e non propaganda.»
Durante il Salone del Libro di Torino ha detto che la Repubblica ha una certa concezione del mondo, del Paese e della democrazia. Qual è, invece, la Sua personale concezione di questi tre fattori?
«Per un’eterogenesi dei fini coincide con quella di la Repubblica. Non sono una persona che si è mai impegnata politicamente, però sono cresciuto in una famiglia e ho sviluppato nella mia carriera l’adesione ad alcuni principi fondamentali. Per esempio, nei tanti modi in cui si possono distinguere gli esseri umani, io privilegio le cose che li accomunano rispetto a quelle che li rendono differenti. Sono per il rispetto delle regole e per alcuni principi umanitari che fanno parte della nostra civiltà e della nostra democrazia. La Repubblica è questa cosa qui, concludo la carriera in un posto che è fatto su misura per incarnare i valori nei quali credo.»