“I residenti di Leonia, una delle Città invisibili di Calvino, direbbero, se interrogati a riguardo, che la loro passione è il godere delle cose nuove e diverse. Infatti ogni mattina la popolazione indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall’ultimo moderno di apparecchio. Ma ogni mattina i resti della Leonia di ieri aspettano il carro dello spazzaturaio, tanto che vien da chiedersi se la vera passione dei leoniani non sia invece l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità. (…) Non è che i residenti del nostro mondo liquido-moderno, proprio come fanno gli abitanti di Leonia, dicono una cosa e ne pensano un’altra? Affermano che il loro desiderio, scopo, sogno o passione è instaurare relazioni. Ma di fatto non sono forse preoccupati di come evitare che i loro rapporti si condensino e si coagulino?”
Quello che avete appena letto è un breve estratto della prefazione al libro Amore liquido di Zygmunt Bauman. A distanza di tre giorni dalla sua morte, appare davvero superfluo ricordare al mondo chi egli sia stato, ma d’altro canto non è scontato o futile offrire un omaggio a uno dei più grandi pensatori dell’epoca contemporanea. Molto probabilmente, in un modo o nell’altro, tutti siamo venuti in contatto con la nuova accezione che il sociologo polacco ha dato alla parola “liquido”, attributo metaforico da accostare alla società globalizzata e postmoderna e, per questo, anche alla vita, alla paura e all’amore. Forse nessuno più di lui ha saputo descrivere la morsa – antica e attuale – che stringe coloro che si accingono a vivere nel mondo a essere animali sociali. Esplorando quella tensione fra il donarsi e il preservarsi, fra l’autodistruzione e la costruzione collettiva, fra la necessità dell’altro e la paura che egli esercita su di noi, Bauman è stato tra i primi a cogliere la pericolosità di quella lotta per l’indipendenza che non si trasforma in una interdipendenza funzionale e rispettosa, ma che – al contrario – diviene il preludio di una solitudine di massa. Una delle testimonianze più efficaci del suo acume è il suo intervento nella parte finale del celebre documentario La teoria svedese dell’amore, del regista Erik Gandini. Il soggetto dell’opera è l’analisi degli effetti, che alcune politiche statali svedesi – attente al “benessere” e all’autonomia dei propri cittadini – hanno provocato sulla qualità della vita sociale nel loro Paese. Vengono presentate le storie di donne che scelgono di avere figli da sole senza voler costituire una famiglia, di uomini anziani che vengono trovati morti dopo settimane, mesi o – addirittura – anni, di giovani che sono costretti a rifugiarsi tra i boschi per riscoprire il piacere della comunità, del contatto fisico, dell’alterità. La società di “individui indipendenti”, sognata dal partito socialdemocratico nel 1972 attraverso il manifesto La famiglia del futuro, prevedeva la liberazione dalla dipendenza economica (e non) delle donne dagli uomini, degli adolescenti dai genitori e degli anziani dai figli. Lo Stato si sarebbe occupato, grazie a un sistema socioassistenziale efficiente, di rendere autonomi tutti i cittadini, garantendo così una maggiore “verità” nei rapporti sociali. Prendendo come esempio “il caso svedese” possiamo chiederci, infatti, cosa accada al nostro bisogno di contatto umano, di cura, quando lo Stato elimina quasi ogni problema di tipo sociale, e a quale destino venga consegnato l’uomo in un Paese in cui non è più necessario combattere per l’uguaglianza o la sopravvivenza, ma contro la noia e la solitudine.
Il passaggio essenziale, colto dal sociologo polacco, è che il processo di liberazione dalla sottomissione – come risulta(va) opportuno nel caso del rapporto di genere o nelle famiglie eccessivamente autoritarie – non può farci perdere di vista l’importanza del rapporto intersoggettivo. Lo Stato, per quanto organizzato, non può sopperire e non può annullare questa necessità. E se è vero che quest’epoca liquida, segnata dall’utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione e della rete, rende davvero complesso e più faticoso l’instaurazione di relazioni interpersonali sane e gratificanti, non significa che il nostro bisogno dell’incontro con l’altro possa essere annientato e che non esista una via intermedia tra la solitudine e la sottomissione.
“Abbiamo tutto, abbiamo tutto quello che ci serve per evitare la fame e la miseria, la povertà. Una cosa che non abbiamo, una cosa che non ci può essere fornita dallo Stato, dai politici che stanno in alto è lo stare insieme agli altri, stare con altre persone, far parte di un gruppo: di questo ti devi occupare tu. Le persone che sono abituate ad essere indipendenti stanno perdendo la capacità di accettare la convivenza con altra gente, perché sei già stato privato della capacità di socializzare. È molto stancante, ci vogliono molti sforzi, molta attenzione. Bisogna negoziare, rinegoziare, ridiscutere. Concordare, ricreare. L’indipendenza ti priva delle capacità di fare tutto questo. (…) Devi affrontare il bisogno di dialogare, di intraprendere una conversazione. Devi accettare il fatto che le persone sono diverse, che ci sono molti modi di essere umani. Quando cominciamo un dialogo non sapremo mai come andrà a finire. Magari invece di dimostrare che noi siamo saggi e tutti gli altri sono stupidi, scopriremo che gli altri sono saggi e noi siamo stupidi. Più siamo indipendenti, meno siamo in grado di fermare la nostra indipendenza e sostituirla con una piacevolissima interdipendenza. Quindi, in conclusione, l’indipendenza non è la felicità. Alla fine l’indipendenza porta a una vita vuota, priva di senso e a una completa, assoluta, inimmaginabile noia.”
Se l’indipendenza non è bastevole – come affermato da Bauman – per ottenere una vita felice, evidentemente è necessario conservare i progressi ottenuti, continuando però a lavorare sulla costruzione di una rete di relazioni umane – non solo virtuale – che ci liberi dalla tentazione dell’individualismo sfrenato e che, tramite la ricchezza del confronto e della diversità, possa portarci un contributo imprescindibile per la nostra completezza. Allora è arrivato il momento di accettare nuove sfide, di reindirizzare le conquiste di quest’ultimo secolo, trasformando i limiti della nostra società in possibili punti di partenza.
Se il futuro ci dovesse consegnare un mondo ancora più segnato dalla virtualità e dalla dissoluzione dei legami tradizionali, inevitabilmente le relazioni umane sarebbero costrette nuovamente a cambiare forma. Ma questo non vuol dire che l’Amore e la cura per gli altri – seppur allo stato gassoso – non possano salvare l’uomo dallo svuotamento di se stesso.
“Non è vero che la felicità significhi una vita senza problemi. La vita felice viene dal superamento dei problemi, dalla lotta contro i problemi e dal risolvere le difficoltà, le sfide. Bisogna affrontare le sfide, fare del proprio meglio, sforzarsi. Si raggiunge la felicità quando ci si rende conto di riuscire a controllare le sfide poste dal fato.”