Allarme rientrato, signore: il ciclo mestruale è ancora un privilegio. A ribadirlo è stato il Parlamento italiano che, chiamato a votare su un emendamento relativo alle semplificazioni fiscali, ha bocciato la Tampon Tax. Gli assorbenti, dunque, restano tassati al 22%.
Respinta con 253 voti contro e 189 a favore, la misura – già avanzata nel 2016 dal leader di Possibile Giuseppe Civati e portata avanti dal Partito Democratico – pare sprovvista di copertura, comportando costi che varierebbero dai 212 ai 300 milioni, come annunciato in seduta parlamentare da Carla Ruocco, Presidente pentastellata della Commissione Bilancio della Camera. Ad anticiparla, soltanto qualche mese fa, era stata già la Sottosegretaria al MEF Laura Castelli che, tanto per cambiare, aveva deviato le colpe di una futura bocciatura verso Bruxelles: «Questo Parlamento e il governo sono d’accordo nel merito, ma il problema è l’infrazione sulla riduzione di un’aliquota IVA e non credo che si sia in un momento in cui possiamo dire a Bruxelles “vogliamo ridurla” e farci fare un’infrazione. Il governo responsabilmente non se la sente». Irresponsabilmente, invece, alimenta – in ogni sua scelta – una discriminazione di genere senza eguali.
In Europa, infatti – la stessa che risponde a Bruxelles –, la situazione relativa ai prodotti femminili è piuttosto diversa. A tal proposito, per arginare quella che viene definita come period poverty o povertà mestruale, sono tanti i Paesi che stanno facendo passi avanti importanti per l’abolizione o la riduzione della Tampon Tax. Basti pensare che soltanto recentemente la Spagna ha annunciato che dal prossimo anno l’aliquota sugli assorbenti passerà dal 10 al 4%, dopo che già le Canarie l’hanno completamente azzerata nel 2017. Anche il Regno Unito si muove nella stessa direzione con la riduzione dal 17.5 al 5% dell’IVA, seguito dalla Francia, dal Belgio e dall’Olanda, che hanno rispettivamente una tassazione pari al 5 e al 6%. Altri esempi virtuosi sono, poi, l’Irlanda, che dal 2015 ha portato l’imposta allo 0%, e la Scozia, dove gli assorbenti sono ormai distribuiti gratuitamente alle studentesse.
Al di là dei confini europei, invece, il primo Paese al mondo ad agire per calmierare il prezzo finale dei period products è stato il Kenya, dove, a causa delle difficoltà economiche, molte giovani erano costrette a disertare la scuola nei loro giorni no. Dal 2004, quindi, il costo dei beni a esse riservati si è ridotto fino alla distribuzione gratuita negli istituti scolastici, iniziata nel 2011. Detassati, infine, sono anche in Canada, in India, in Nigeria, in Libano, in Nicaragua, in Australia, in Giamaica e in Tanzania. Stesso discorso nello Stato di New York e, più recentemente, in altri stati quali Maryland, Massachusetts, Minnesota, New Jersey e Pennsylvania. Nel resto degli USA, invece, la tassazione varia dal 4 al 9% a seconda dei Paesi.
In Italia, al contrario, gli assorbenti, ma anche gli altri prodotti legati all’igiene intima femminile e i pannolini per i neonati, si confermano non un bene di prima necessità, qualcosa di cui non si possa fare a meno, bensì un bene di lusso, così come ormai risultano dal lontano 1972, tassati al pari di un tablet o di uno smartphone. Prioritari, in cambio, sono i rasoi da barba – la cui IVA è stata abbassata al 4% –, i tartufi e persino i francobolli da collezione, anch’essi fruitori di un’imposta agevolata al 10%. La scusa Bruxelles, dunque, sembra fare acqua da tutte le parti, lasciando spazio, ancora una volta, a una misura che altro non è che sessista e fortemente classista.
In media, si stima che, nel corso della sua vita fertile, una donna abbia dai 460 ai 520 mestrui con una spesa annua che varia in base alla necessità di ognuna ma che comunque raggiunge, nell’arco dell’intero periodo, migliaia e migliaia di euro. Cifre non sempre disponibili a tutte. Tassare i prodotti imprescindibili per affrontare quei circa cinque giorni al mese, dunque, non solo è inappropriato, ma anche estremamente discriminatorio: «Dal punto di vista simbolico e culturale, il fatto che i rasoi da barba abbiano un’aliquota IVA inferiore a quella degli assorbenti è un segnale più che evidente di una discriminazione insopportabile. È come dire che radere i peli della barba ha un riconoscimento sociale ed economico, tamponare le perdite di sangue nel periodo mestruale no», ha denunciato Carla Ruffini del movimento Non una di meno di Reggio Emilia.
A pensarla come lei, ovviamente, sono in tantissime, al punto che sulla piattaforma change.org sono partite almeno due petizioni, lanciate dall’associazione Onde rosa, volte a ridurre al minimo la tassa sul ciclo. «Avere il ciclo non è un lusso né tantomeno una scelta e gli assorbenti non sono un accessorio ma una necessità per ogni donna. Chiediamo che la Tampon Tax sia abbassata al 4% e che quindi gli assorbenti vengano considerati beni di prima necessità. […] Attraverso una semplice firma non ci aiuterete solamente a cambiare una tassa, ma l’intero stile di vita di molte donne», è il messaggio lanciato alla società civile come alla politica. L’alleggerimento della pressione fiscale sui prodotti indispensabili per l’igiene e la salute femminile, infatti, sarebbe un primo e importante traguardo per il riconoscimento di un’incipiente forma di parità tra i due sessi, di certo non una rivoluzione – quantomai necessaria – che, purtroppo, almeno nel nostro Paese, sembra ancora fin troppo lontana.
In sintesi, solo chi ha disponibilità economiche può rispondere al flusso naturale della biologia – arginando quelli che sono gli inevitabili disagi fisici e psicologici legati alle mestruazioni – e solo chi è donna è costretto a spendere di più. Forse, perché, come ha dichiarato Barack Obama nel corso di un’intervista, a fare le leggi sono gli uomini. Guai a dirlo in Italia, però: pena la derisione – chiedere a Pippo Civati – o l’accusa di vittimismo.
La discriminazione volta a gravare sulle tasche di un genere piuttosto che dell’altro, tuttavia, non va ricercata soltanto nel prezzo finale di beni legati al ciclo mestruale. Stando alla testata francese Rue89, infatti, ogni mese una donna spende mediamente 130 euro in più di un uomo e questo perché i prodotti rosa hanno dei costi tendenzialmente più alti. A tal proposito, uno studio condotto dal Department of Consumer Affairs di New York nel 2015 ha denunciato che, statisticamente, i beni rivolti alle consumatrici costano all’incirca il 7% in più di quelli rivolti ai consumatori. Soltanto sul vestiario, ad esempio, la differenza tra l’abbigliamento femminile e quello maschile è di circa l’8%. Del 13% quando si tratta di prodotti di bellezza. Oggetti e servizi il più delle volte uguali o simili, magari dello stesso brand, ma diversi nei colori o nel sesso di chi dovrebbe usufruirne. Basta, infatti, la semplice scritta woman sulla confezione per leggere un prezzo differente, chiaramente più alto. Non conta, allora, il divario salariale, non conta che una donna guadagna sempre meno di un uomo, l’importante è che paghi di più. È la Pink Tax, la tassa rosa, chiamata così perché figlia di una strategia di marketing basata su uno stereotipo di genere secondo la quale è sufficiente orientare un prodotto verso il target femminile per renderlo automaticamente più costoso del prodotto perfettamente identico rivolto al target maschile.
Tenere vivo il dibattito, dunque, soprattutto alla luce di quanto successo la scorsa settimana in Parlamento, si rivela assolutamente necessario, così come pretendere di allinearsi agli altri Paesi del mondo, per uno Stato che si definisce civile, è un obbligo imprescindibile. Altrimenti, a pagarne le conseguenze, saranno sempre e solo le donne, vittime sacrificali di una fallocrazia imperante alla quale dobbiamo disabituarci per smettere di essere sesso debole in termine di diritti. Una fallocrazia confermatasi tale non solo con la bocciatura della Tampon Tax ma, anche, con le frasi indegne del deputato pentastellato Francesco D’Uva che, maschio fino in fondo, ha addirittura indicato la via alternativa agli assorbenti – la coppetta, il pannolino lavabile – con la scusa dell’ambiente: arrogante e, nello specifico, anche ignorante, fin troppo simile, nell’infelice uscita, al non hanno pane, mangino brioches di quella Maria Antonietta poi decapitata.
È tempo per le donne di diventare finalmente padrone del proprio corpo come della propria vita, di scendere in piazza a oltranza, di dire basta. Perché il ciclo non è una scelta, ma il diritto al rispetto sì. Innanzitutto per se stesse.