Estremamente malvagi, incredibilmente cattivi e vili: con queste parole il giudice Edward Cowart si espresse riguardo gli omicidi commessi da Theodore Bundy, forse il serial killer più famoso d’America. Ma queste parole rappresentano anche la traduzione diretta del titolo originale del film – Extremely Wicked, Shockingly Evil and Vile – diretto da Joe Berlinger, banalmente reso in italiano come Ted Bundy – Fascino criminale. Aggettivi, quelli del giudice, che non furono scelti a caso per definire l’efferatezza delle imprese omicide di Bundy, il cui processo fu trasmesso in diretta TV nel 1979 e divenne un caso mediatico senza precedenti.
Ted Bundy era un affascinante ragazzo americano, studente di legge, di bell’aspetto, brillante e dai modi perbene che nascondeva, però, un animo malato, narcisista e frustrato. La sua volontà di potenza e affermazione, infatti, si esprimeva stuprando e uccidendo donne. Il film, tuttavia, non scava nella sua psiche così come hanno già fatto tante pellicole che in passato hanno preteso, a ragione o a torto, di penetrare i meccanismi contorti e perversi, ma indubbiamente affascinanti, che si celano dietro le anonime facce dei serial killer che costellano la storia degli Stati Uniti dell’ultimo secolo, né si concentra sulle indagini che portarono all’arresto del responsabile dell’assassinio di 30 donne (ma pare fossero molte di più). Piuttosto, la trama adotta la prospettiva di Liz Kendall – ottimamente interpretata da Lily Collins –, la fidanzata di Bundy che, profondamente innamorata, non riusciva a vedere il mostro che si celava dietro il viso del suo amato, anche perché Ted era molto affettuoso con lei e la figlia. Anzi, il film suggerisce che Liz, colpita dal fatto che lui non fosse affatto spaventato dal frequentare una madre single, nonché gratificata dalle premure che l’uomo riservava a entrambe, si lasciò andare in questa storia con il cuore e con l’anima e le risultò dunque molto difficile accettare che il proprio compagno fosse uno psicopatico omicida.
Il film, in realtà, procede su due binari. Da un lato, abbiamo il lungo e doloroso percorso di accettazione della verità da parte di Liz, dunque l’annullamento di sé verso una progressiva consapevolezza e soprattutto affrancamento dai sensi di colpa per non essersi resa conto del male entrato nella sua vita. Dall’altro, assistiamo alla condotta sopra le righe di quello che fu un vero e proprio mattatore, nonché manipolatore delle persone e dei media. Non vedremo mai alcuna efferatezza compiuta da Ted, bensì parteciperemo alle sue rocambolesche e incredibili fughe dal tribunale del Colorado prima e dalla prigione poi, e lo vedremo assurgere a personaggio popolare – Sono più famoso di Disneyworld dirà lui stesso –, la cui fama fu consacrata dal maxi-processo in diretta, circo mediatico che gli diede la possibilità di esprimere al meglio le proprie doti affabulatorie e manipolatorie dinanzi alla nazione.
Paradossalmente, riuscì a fare breccia nel cuore di molte donne che, affascinate dal suo magnetismo, andarono ad assisterlo in tribunale e fecero il tifo per lui, non credendo possibile che un così bravo ragazzo potesse essere il responsabile di delitti tanto feroci. Tra le sue sostenitrici ci fu anche un’amica, Carole Ann Boone – interpretata da Kaya Scodelario – , che iniziò una relazione con Ted mentre era in carcere, intervenne come testimone al processo, occasione in cui Bundy le chiese di sposarla in diretta tv, ed ebbe persino un figlio con lui.
In effetti, la pellicola porta sottotraccia un’interessante riflessione sulla civiltà dei media di massa e sulle influenze che essi hanno sulla psiche collettiva e sulle modalità di percezione delle persone. Il processo in tv di Bundy sarà solo l’inizio di quello che poi diventerà una pratica sempre più comune di spettacolarizzazione della giustizia ma anche delle gesta dei criminali. I dettagli macabri relativi ai delitti del pluriomicida diventano così pane quotidiano per i media che li confezionano in dosi giornaliere per i palati dell’uomo comune che vuole vivere sensazioni forti di cui, nella propria grigia esistenza, non potrà fare esperienza. D’altro canto, questo meccanismo permette anche di proiettare le proprie ombre, le parti esecrabili della propria personalità, i difetti e le debolezze su un soggetto esterno, in questo caso il serial killer, valvola di sfogo ideale per scaricare e sublimare il lato oscuro di un’intera collettività. Il film riesce efficacemente a restituire questi meccanismi psicologici e antropologici della nostra società senza essere didascalico ma, anzi, lasciando a ogni spettatore la facoltà di riflettere come vuole su queste tematiche.
La grande abilità della pellicola, che si regge sull’incredibile interpretazione di Zac Efron – ex idolo delle teenager della serie di film High school musical –, è di farci dubitare fin quasi alla fine riguardo la reale colpevolezza di Ted Bundy, nonostante sappiamo dalla storia come è andata realmente la vicenda. Non mostrando alcun omicidio – se non qualche accenno in un brevissimo flashback finale – e seguendo in parallelo la vicenda di Liz che fatica a credere alle accuse, nonché gli eventi mediatici, siamo costretti a fare i conti con la faccia da bravo ragazzo di un individuo che ce la mette tutta a convincerci della sua innocenza e ci rende emotivamente partecipi della sua speranza riguardo il fatto che uscirà di prigione. Ma nello sguardo apparentemente pulito di Zac Efron non è possibile non riconoscere un’ombra maligna che si spande e che rimane nella coscienza dello spettatore anche dopo la visione. Tanto di cappello all’attore che ci restituisce il ritratto di una persona apparentemente amorevole e affabile, pur trasmettendo al tempo stesso una profonda inquietudine che proviene da un insieme di elementi e dettagli non verbali della sua interpretazione sapientemente dosati grazie anche alla direzione del regista Berlinger.
A livello visivo, la vicenda procede tramite un montaggio alternato molto raffinato che mostra i percorsi dei due protagonisti con accostamenti efficaci tra scene di senso opposto che si contrappuntano ironicamente a vicenda. Nella prima parte, infatti, il tempo del racconto è frammentato, mostrandoci con dei salti avanti e indietro, la vita della coppia, compreso il primo incontro, e i primi arresti di Ted. La seconda parte si concentra, invece, sulle fughe di Bundy – che misero in ridicolo le forze dell’ordine – e soprattutto sul processo presieduto dal giudice Cowart, interpretato da un ineffabile John Malkovich. Il procuratore ha invece il volto popolare del Jim Parsons di The Big bang theory, mentre il paffuto collega di Liz, che entrerà nella sua vita dopo Ted, ha le sembianze di Haley Joel Osment, l’ex ragazzino del Sesto senso ormai cresciuto e barbuto.
Il regista aveva già realizzato per Netflix una serie documentaristica in 4 puntate sull’omicida seriale, intitolata Conversazioni con un killer: il caso Bundy, nella quale aveva sviscerato la mente contorta che si nascondeva dietro quella faccia perbene. Così, ha deciso di affrontare il film da un punto di vista nuovo che si smarca dal canone del genere ampiamente sfruttato sui serial killer e prende invece una direzione inedita e interessante che, come dicevamo, adottando lo sguardo di Liz, ci porta attraverso un percorso di camuffamento prima e demistificazione del reale poi, nel quale lo spettatore è chiamato in prima persona a valutare la verità di ciò che sta guardando.