Succedeva sempre che a un certo punto uno alzava la testa… e la vedeva. È una cosa difficile da capire. Voglio dire… Ci stavamo in più di mille, su quella nave, tra ricconi in viaggio, e emigranti, e gente strana, e noi… Eppure c’era sempre uno, uno solo, uno che per primo… la vedeva. Magari era lì che stava mangiando, o passeggiando, semplicemente, sul ponte… magari era lì che si stava aggiustando i pantaloni… alzava la testa un attimo, buttava un occhio verso il mare… e la vedeva. Allora si inchiodava, lì dov’era, gli partiva il cuore a mille, e, sempre, tutte le maledette volte, giuro, sempre, si girava verso di noi, verso la nave, verso tutti, e gridava (piano e lentamente): l’America. Poi rimaneva lì, immobile come se avesse dovuto entrare in una fotografia, con la faccia di uno che l’aveva fatta lui, l’America.
A volte, è l’incipit di un libro a lasciarci di stucco, a farci comprendere il fine e il senso ultimo racchiuso in esso, permettendoci di entrare all’interno di un vortice temporale, un universo distante e astratto in cui di pagina in pagina ci troviamo a vivere. Ed è proprio questo quello che cerca di fare Alessandro Baricco, scrittore e saggista italiano nato a Torino nel 1958, ricreando un’atmosfera surreale e cullando il lettore o lo spettatore – nel caso in cui il testo venga recitato a mo’ di monologo teatrale, da cui la sua natura stessa – a bordo di una barca trasportata dalle onde, fino a giungere alla meta di molti: l’America.
Novecento non è una data ricorrente, né una canzone, ma il nome del personaggio che lo scrittore ritrae all’interno del suo scritto, definendo il tutto come una vera messa in scena e un racconto da leggere ad alta voce. Pubblicato da Feltrinelli nel 1994, fu scritto perché fosse interpretato da Eugenio Allegri con la regia di Gabriele Vacis e nel luglio dello stesso anno si tradusse in un vero e proprio spettacolo che debuttò al Festival di Asti.
L’evento teatrale riparte da quelli che sono gli andamenti musicali della parola, dai gesti surreali e dalle evocazioni magnetiche che lo resero apprezzato in tutta Italia. Al monologo si è, infatti, ispirato anche il regista Giuseppe Tornatore per il film La leggenda del pianista sull’oceano, un testo che continua ad attrarre il pubblico. Quest’anno, in occasione del venticinquesimo anniversario dalla pubblicazione, viene riproposto – per l’occasione riallestito e coprodotto da Art Quarium –, dal prestigioso Teatro Stabile di Torino e dal Teatro Nazionale. Lo spettacolo dal suo debutto ha avuto circa 500 repliche.
Una storia molto forte dal punto di vista poetico, così come il personaggio, talmente potente da impressionare il pubblico. Un ruolo che Eugenio Allegri, mediante la sua leggerezza e semplicità, interpreta ormai da ben un quarto di secolo, ritrovandosi nelle fattezze del protagonista e rendendo le parole del testo di Baricco una vera e propria melodia per chi le ascolta.
Il monologo narra la singolare storia di Novecento che ancora neonato viene abbandonato sul piroscafo Virginian, in prima classe, e trovato per caso da un marinaio di colore che gli farà da padre fino all’età di otto anni. Alla morte di quest’ultimo, come per mistero, il bambino scomparirà per un lungo periodo e sarà poi ritrovato a suonare il pianoforte, uno strumento che per tutta la messa in scena caratterizza l’elemento cardine e il fulcro del racconto, presente anche in una piccola rappresentazione sospesa nell’aria sul palcoscenico.
Novecento, il cui nome completo sarebbe poi Danny Boodman T.D Lemon Novecento, viene descritto da Baricco come un ragazzino prima e come un uomo poi con grandi capacità di apprendimento che vive attraverso passioni e desideri altrui. Si trova come sospeso in un mondo tutto suo, non è mai stato sulla terraferma né ha mai visto l’America, ma la immagina da lontano riuscendo a descriverla anche nelle sue sensazioni, emozioni e colori. Novecento si realizza con la musica, centrale così come il pianoforte e il mare che sono essi stessi melodia per la sua anima forte e nel contempo fragile.
Lui era Novecento, e basta. Non ti veniva da pensare che c’entrasse qualcosa con la felicità, o col dolore. Sembrava al di là di tutto, sembrava intoccabile. Lui e la sua musica: il resto non contava.
Il protagonista, pur vivendo in simbiosi con la nave, è in grado di cogliere quella che potrebbe essere definita come anima del mondo, così come Baricco stesso vuol fare intendere con la sua scrittura. Il Virginian, però, non è l’icona di ciò che può essere reputato giusto per l’individuo all’interno della società né la retta via che ogni uomo vorrebbe intraprendere per esorcizzare i propri dolori e sofferenze. Di spicco è, inoltre, il rapporto fra finito e infinito che rende immortale il testo:
Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma a duemila persone per volta. E di desideri ce n’erano anche qui, ma non più di quelli che ci potevano stare tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicità, su una tastiera che non era infinita. Io ho imparato così. La terra, quella è una nave troppo grande per me. È un viaggio troppo lungo. È una donna troppo bella. È un profumo troppo forte. È una musica che non so suonare. Perdonatemi. Ma io non scenderò.
Novecento tratta un fenomeno preponderante nella società odierna: l’emigrazione, a cui il lettore o lo spettatore reagiscono sicuramente in modo diverso rispetto allo scorso ventennio. Gli emigranti all’interno del monologo siamo proprio noi, non coloro di cui si parla oggigiorno sui giornali. Baricco ha dunque scritto una storia che si trova in modo preciso e puntuale ad aderire con la realtà in cui viviamo, che riesce a mostrarsi perfettamente autentica e attuale nonostante lo scorrere del tempo.
Come ormai ci è chiaro, lo scrittore si adopera nel disegnare una personalità simbolo, un’immagine da prendere come luce guida nella vita di ogni giorno. Novecento non tenta in alcun modo di raggiungere un compromesso con ciò che gli si pone od oppone davanti poiché preferisce incantare i propri sogni e le proprie speranze, il mare custodisce i suoi desideri, le sue sensazioni ed emozioni e, dal momento in cui si trova costretto ad abbandonare il transatlantico, decide di lasciarsi esplodere purché esso possa anche portare con sé la sua memoria, in un movimento incessante e continuo come quello delle onde del mare.
[…] la verità dei fatti è che quel pianoforte incominciò a scivolare sul legno della sala da ballo, e noi dietro a lui, con Novecento che suonava e non staccava lo sguardo dai tasti, sembrava altrove, e il piano seguiva le onde e andava e tornava, e si girava su se stesso, puntava dritto verso la vetrata, e quando era arrivato a un pelo si fermava e scivolava dolcemente indietro, dico, sembrava che il mare lo cullasse, e cullasse noi, e io non ci capivo un accidente, e Novecento suonava […].