Il ragazzo dell’Inferno, per gli amici Red, già portato due volte sullo schermo da Guillermo Del Toro, è tornato in una nuova veste, con un nuovo regista – il Neil Marshall di piccoli gioielli horror degli anni 2000 come Dog soldiers e il suo migliore The descent – e un nuovo interprete, il David Harbour, lo sceriffo Hopper della serie Stranger Things.
Per chi non conoscesse il personaggio, nato negli anni Novanta dalla penna di Mike Mignola per la Dark Horse Comics, si tratta letteralmente di un ragazzo scaturito dall’Inferno, evocato dai nazisti nel 1944 su un’isola scozzese nel corso di un rituale occulto. Preso in consegna dagli americani, che ne approfittano anche per far fuori un bel po’ di crucchi, viene cresciuto da uno scienziato del sovrasensibile, Trevor Bruttenholm, che gli fa da padre e lo introduce, come arma strategica, nel B.P.R.D. (Bureau of Paranormal Research and Defense), Istituto per la Ricerca e Difesa del Paranormale. Il giovane, provvisto di grosse corna come si conviene a qualsiasi abitante del regno di Satana, ci tiene però a tenerle tagliate e limate per passare più o meno inosservato tra gli uomini – cosa comunque impossibile – o, forse, per rinnegare la sua natura. Questo l’assunto di base per una serie di avventure che attraversano il territorio del gotico e del soprannaturale in chiave post-moderna con la sfrontatezza di un personaggio come Hellboy, abituato a menare le mani – complice un enorme pugno di pietra –, che non va mai tanto per il sottile ma, a dispetto della sua natura infernale, dotato di ben più umanità rispetto a tanti altri cosiddetti esseri umani.
Per chi ha amato i due capitoli diretti da Del Toro, il reboot – ovvero rilancio del personaggio –, che fa piazza pulita dei precedenti capitoli azzerando tutto e ricominciando da capo, è una notevole sterzata in una direzione diversa. Decisamente più ruvido, sporco, sia nei contenuti che nella forma – ci sono numerosi litri di sangue e scene splatter in più –, questo Hellboy firmato Neil Marshall è una cavalcata adrenalinica tra roboanti scontri con creature dell’universo fantasy – giganti, esseri muta-forma, fatine, uomini-cinghiale, streghe orribili oppure avvenenti – che non esitano a infilzare, squartare e triturare chiunque capiti a tiro. Il tutto viene stemperato dall’ironia di grana grossa del nostro ragazzone rosso che, quando non è impegnato a spaccare grugni soprannaturali, si chiede il senso della propria missione sulla Terra e se sia giusto andare contro delle creature che in realtà sono molto più vicine a lui rispetto alla razza umana. E, soprattutto, la domanda è: se gli umani non cacciassero tali creature, forse anche queste non sarebbero più una minaccia?
L’Hellboy di Marshall è anche un personaggio meno maturo rispetto a quello più consapevole dei film di Del Toro – scelta peraltro legittima – e vive ancora un rapporto conflittuale irrisolto con la figura paterna che, se nelle opere del regista messicano veniva incarnata dalla dolcezza di un attore come John Hurt, qui ha invece la freddezza di Ian McShane che le dona l’ambiguità tipica del personaggio di Odino da lui interpretato in American Gods – la serie tratta dall’omonimo romanzo di Neil Gaiman – ma senza averne le profonde sfaccettature, non tanto per mancanze del talentuoso interprete, quanto per insufficienza di scrittura. Il cattivo di turno, l’efferata strega Nimue, interpretata dalla sempre avvenente Milla Jovovich – ormai da anni imprigionata nell’horror quasi macchiettistico dei vari Resident evil – non va al di là di un tratteggiamento mono-dimensionale. Forse, in questo, si avvertono i numerosi disaccordi sul set tra regista e produzione, di cui è trapelato qualcosa solo recentemente. Certamente tutto ciò non ha giovato al film che nasce dalla fusione, non proprio coerente, di più storie originali del fumetto, in particolare Caccia selvaggia e Il seme della distruzione.
La cosa divertente del nuovo Hellboy è proprio il gusto dell’esagerazione, la sua voglia di spaccare tutto e tutti, accompagnata da quella insolenza che è sempre stata la cifra del personaggio, qui ancora più a briglia sciolta, nonché una fiera di creature mostruose perfino più numerose dei film precedenti. Soprattutto verso il finale abbiamo una parata di mostri che faranno la gioia degli amanti di Lovecraft. Il problema è che rimane tutto in superficie. L’empatia per le creature strane è solo a parole, ma basta ricordare la commovente scena della morte del gigante elementale verde in Golden army – il secondo capitolo di Del Toro – per capire che è inutile cercare quel livello di profondità e poeticità a cui ci aveva abituato il cineasta messicano. Anche se nel reboot sono presenti mostri impressionanti in gran quantità, manca quella visione forte che sapeva affabularci con scene indimenticabili come quella del mercato dei Troll, oppure del regno sotterraneo degli elfi oscuri. Anche la trattazione della mitologia è differente. Nella pellicola di Marshall gli elementi mitologici, in questo caso re Artù, Merlino, la spada Excalibur, l’orribile strega dell’est Baba Yaga – non sveliamo come centrano nella storia –, vengono ridotti a meri dispositivi narrativi gettati un po’ lì per caso. Nei precedenti lavori, invece, si respiravano tutto il mistero e la magia tipici delle narrazioni permeate dalla forza dei miti che conservavano intatta quella capacità che hanno le storie mitologiche di riverberare nell’anima. Tutti aspetti che mancano totalmente nel nuovo capitolo.
Altro scoglio da superare era l’inevitabile confronto con la precedente incarnazione del ragazzo infernale e cioè Ron Perlman, mitico attore caratterista presente in centinaia di film di genere – ricordato dal grande pubblico come il Salvatore del Nome della rosa di Annaud – che, con Hellboy, aveva trovato una sua statura da protagonista. Tuttavia, il nuovo interprete, David Harbour, riesce a farlo suo in un modo abbastanza personale, rendendolo altrettanto credibile, utilizzando corde emotive diverse dall’attore-feticcio di Del Toro, ma comunque fedeli al personaggio e donandogli una sua fisicità efficace. Come si diceva, stavolta il protagonista è più grezzo, immaturo e sporco e ci sta tutto.
Rimane anche l’interessante conflitto interiore di un personaggio costretto, suo malgrado, a difendere una razza, quella umana, da cui viene disprezzato e soprattutto destinato per sua natura a portare l’apocalisse nel nostro mondo, a meno che forse non riesca a operare una scelta morale consapevole. Viene conservata anche quell’affascinante e bizzarra irruzione di elementi fantasy-gotici nel mondo reale che da sempre costituisce la cifra di Hellboy, così pure la sua ironia che normalizza le situazioni, come ammette lo stesso protagonista citando la sua analista. Però, tutto viene portato avanti come se fossimo sulle montagne russe e gli scontri fisici sono decisamente più parossistici, con ettolitri di sangue volutamente in eccesso. Intendiamoci, può pure funzionare per un po’, anche perché riporta il personaggio a quella ruvidezza che gli è tipica dalle vignette di cui era protagonista – in questo forse c’entra il tanto strombazzato coinvolgimento dello stesso Mignola, autore del fumetto – ma dimentichiamoci della poesia, della visionarietà e della capacità mitopoietica che Del Toro sapeva donare al personaggio. Se invece ci godiamo il gusto per l’eccesso e il ritmo di una spacconata divertente senza tante remore, soprattutto inteso come sano antidoto ai più patinati, edulcorati e corretti cinecomic Marvel, allora va bene.