«Chiedo scusa alla famiglia Cucchi e agli agenti della polizia penitenziaria, imputati al primo processo. Per me questi anni sono stati un muro insormontabile». Esordisce così, di fronte alla Corte d’Assise, Francesco Tedesco, il carabiniere imputato nel processo-bis sulla morte di Stefano Cucchi con l’accusa di omicidio preterintenzionale, complice dei colleghi Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Chiede scusa e racconta la propria versione dei fatti, come già nell’ottobre del 2018, quando tradì l’omertà sua e di chi aveva sempre saputo.
Stefano si era rifiutato di farsi prendere le impronte. Quelle che, invece, avrebbero tappezzato il suo corpo a lungo, forse per sempre, elevandolo a martire di una battaglia, silenziosa e impari, combattuta tra le mura di una caserma dei carabinieri trasformatasi presto in un vergognoso luogo di tortura.
«Mentre uscivano dalla sala, Di Bernardo si voltò e colpì Cucchi con uno schiaffo violento in pieno volto. Poi lo spinse e D’Alessandro diede a Cucchi un forte calcio con la punta del piede all’altezza dell’ano. Nel frattempo, io mi ero alzato e avevo detto: “Basta, finitela, che cazzo fate, non vi permettete”. Ma Di Bernardo proseguì nell’azione spingendo con violenza Cucchi e provocandone una caduta in terra sul bacino, poi sbatté anche la testa. Io sentii il rumore della testa, dopo che aveva sbattuto anche la schiena. Mentre Cucchi era in terra, D’Alessandro gli diede un calcio in faccia, stava per dargliene un altro ma io lo spinsi via e gli dissi: “State lontani, non vi avvicinate e non permettetevi più”. Aiutai Stefano a rialzarsi e gli dissi: “Come stai?”. Lui mi rispose: “Sono un pugile, sto bene”, ma lo vedevo intontito». Riporta questo e molto altro, Tedesco. Sono trascorsi 3455 giorni da quella notte al Sandro Pertini di Roma.
Il superteste conferma quanto già reso noto cinque mesi fa, quando per la prima volta accusò direttamente i suoi colleghi dando vita a una nuova fase dell’inchiesta: «Sono rinato. Ora non mi interessa nulla se sarò condannato o destituito dall’Arma», disse. «Ho fatto il mio dovere; quello che volevo fare fin dall’inizio e che mi è stato impedito». A sapere, infatti, non erano in pochi. Tra tutti, Roberto Mandolini – oggi accusato di calunnia e falso, ma all’epoca a capo della stazione Appia, dove Stefano fu portato all’arresto – che, a domanda sul da farsi, gli avrebbe risposto così: «Tu non ti preoccupare, devi dire che stava bene. Tu devi seguire la linea dell’Arma se vuoi continuare a fare il carabiniere».
«Percepii quelle parole come una minaccia abbastanza seria. La prima delle due volte che sono stato sentito dal PM, poi, venni accompagnato da Mandolini il quale non mi minacciò esplicitamente, ma mi disse sempre di stare tranquillo e di dire che Cucchi stava bene. Io, però, non mi sentivo affatto tranquillo». L’imputato continua sulla scia di dichiarazioni già fatte da Riccardo Casamassima, l’appuntato scelto che in questi anni ha aiutato a far luce sulla vicenda, portando anche alla pesante accusa che pende su Tedesco. Come lui, infatti, Casamassima ha affermato la colpevolezza di Mandolini il quale, di passaggio a Tor Vergata, la caserma dove aveva prestato servizio in passato, poche ore dopo l’accaduto dichiarò: «È successo un casino, ragazzi, hanno massacrato di botte un arrestato».
All’epoca, le divise laziali erano ancora stravolte dallo scandalo Marrazzo che aveva visto alcune di esse ricattare l’ex Governatore. Era importante, dunque, tentare di salvaguardare quel poco di onore che restava, arrivando persino a coprire una violenza inaudita che avrebbe portato, poi, alla morte di un giovane lasciato agonizzante per ben sette giorni nel silenzio e nell’indifferenza più totali. Un onore che, però, le smentite, le false dichiarazioni, le accuse infondate, le scusanti menzognere, come la droga o l’epilessia, persino le denunce per diffamazione – quelle che Tedesco o lo stesso Mandolini (addirittura nei confronti di Ilaria Cucchi) non si sono risparmiati negli anni – non hanno tutelato affatto, anzi.
Così, insieme alle deposizioni del carabiniere, a Ilaria e ai suoi genitori giunge anche una lettera di Giovanni Nistri, Comandante generale dell’Arma, che scrive: […] Pensavo alla Vostra lunga attesa per conoscere la verità e ottenere giustizia. Mi creda, e se lo ritiene lo dica ai Suoi genitori, abbiamo la Vostra stessa impazienza che su ogni aspetto della morte di Suo fratello si faccia piena luce e che ci siano infine le condizioni per adottare i conseguenti provvedimenti verso chi sia mancato ai propri doveri e al giuramento di fedeltà. […] La abbiamo perché il Vostro lutto ci addolora da persone, da cittadini, nel mio caso mi consenta di aggiungere: da padre. La abbiamo perché anche noi – la stragrande maggioranza dei Carabinieri, come Lei stessa ha più volte riconosciuto, e di ciò La ringrazio – crediamo nella Giustizia e riteniamo doveroso che ogni singola responsabilità nella tragica fine di un giovane sia chiarita, e lo sia nella sede opportuna, un’aula giudiziaria. Un segno di vicinanza certamente importante che, tuttavia, arriva fin troppo tardi.
Certo – la famiglia Cucchi lo ha sottolineato più volte –, quello per la morte del geometra appena trentenne è un processo a singoli cittadini i quali, seppur rappresentanti dello Stato, non qualificano affatto l’intera Arma dei Carabinieri. Sarebbe un grosso errore, infatti, identificare quest’ultima con gli imputati che – si spera – risponderanno personalmente dei reati che avranno commesso. Ciò detto, connivenza e reticenze non si cancellano con poche righe né, tantomeno, con la costituzione a parte civile a cui pare intenzionato il corpo militare. Una scelta che, in qualche modo, sembra oggi piuttosto opportunistica, figlia di una verità che tutti sapevano ma che ognuno ha tenuto ben nascosta dietro una divisa intrisa di sangue.
Una storia paradossale, quella del pestaggio del giovane romano, che se sta venendo fuori è soltanto merito di Ilaria, di una straordinaria donna che, coadiuvata dall’avvocato Fabio Anselmo, sta lottando dal 2009 affinché vengano chiarite le colpe della vicenda. Quel muro di cui parla Tedesco, facendole eco, quindi, sta crollando ma non grazie ai testimoni che, ormai alle strette, aprono il cassetto della memoria. Dichiararsi oggi parte lesa, dunque, non commuove, ma dispiace. Dispiace perché non è successo prima, perché nessuno, fino a questo momento, ha cercato di scoprire quello che si è rivelato un vero e proprio sistema colluso fatto di un numero corposo di professionisti.
Allo stesso modo, anche il Ministero della Difesa si dice adesso favorevole a costituirsi parte civile nel lungo processo che forse vedrà finalmente una fine. A ufficializzarlo è il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Stefano, però, è morto mentre era nella mani dello Stato, quello che nei suoi rappresentanti, quindi in chi oggi la affiancherebbe, ha visto spesso i peggiori antagonisti della coraggiosa famiglia capitolina: «La sorella si dovrebbe vergognare, fa schifo», ha ripetuto negli anni Matteo Salvini, in fondo mai pentitosi. «Chi sbaglia paga, anche se indossa una divisa, ma non accetto che l’errore di pochi comporti accuse o sospetti su tutti coloro che ci difendono: sempre dalla parte delle Forze dell’Ordine», prova ora ad aggiustare il tiro il Ministro dell’Interno dopo le affermazioni del superteste, probabilmente meno convinto ma forse costretto per non sfigurare con il suo rivale di governo, Luigi Di Maio, che invece sceglie di ringraziare Nistri, l’unico che, dopo tutto questo tempo, quell’onore a cui Mandolini teneva prova disperatamente a difenderlo.
La sensazione, amara, dunque, è che ancora una volta lo Stato si muova secondo precise strategie politiche. Perché se la famiglia Cucchi non è sola, è perché chi crede nella giustizia, quella vera e senza tempo, ha fatto di Ilaria la propria sorella e di Stefano il fratello ammazzato da riscattare. Di certo, non perché l’Italia nelle sue vesti ufficiali se ne sia dimostrata degna.
Ben venga, allora, la ricostruzione veritiera dei fatti. Ben vengano le parole di Francesco Tedesco e di Riccardo Casamassima. Ben vengano le braccia tese di Giovanni Nistri. Ben vengano pure se a distanza di 3455 giorni, dieci anni a ottobre. Si faccia chiarezza, si lavi la divisa, ma attenti a non cancellare del tutto le macchie affinché restino lì a lungo, come da monito. Ben vengano tutte le storie. I sorrisi di Stefano e, chissà, forse un domani pure quello di Federico Aldrovandi. Perché non è tardi per la verità, è tardi per le scuse.